Presunzione di demanialità strada ed occupazione illegittima
Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 17/07/2024, n. 19784, sulla presunzione di demanialità di una strada
MASSIMA
La presunzione di demanialità delle strade rientranti nel territorio comunale non è attivata dalla semplice inclusione nella toponomastica comunale e richiede che l'area integri la funzione viaria della rete stradale, costituendo pertinenza della strada pubblica.
ORDINANZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta da:
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe - Presidente
Dott. PARISE Clotilde - Consigliere
Dott. MERCOLINO Guido - Consigliere Rel.
Dott. D'ORAZIO Luigi - Consigliere
Dott. CATALLOZZI Paolo - Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9650/2020 R.G. proposto da;
COMUNE DI R, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'Avv. Fernando Amoroso, con domicilio eletto in Roma, via E. Albanese, n. 61/c;
- ricorrente -
contro
A.A., B.B. e C.C., rappresentati e difesi dagli Avv. Francesco Tuccari e Luigi Pedone, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
- controricorrenti -
avverso la sentenza della Corte d'Appello di Lecce n. 136/19, depositata l'8 febbraio 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 marzo 2024 dal Consigliere Guido Mercolino.
Svolgimento del processo
1. A.A., B.B. e C.C., comproprietari di un fondo sito in R, riportato in Catasto al foglio (omissis), particelle (omissis), convennero in giudizio il Comune di R, per sentir accertare l'intervenuto acquisto da parte dello stesso della proprietà di un'area della superficie di 744 mq., per occupazione usurpativa, con la condanna al risarcimento dei danni.
A sostegno della domanda, riferirono che il Comune aveva occupato abusivamente l'area, destinandola a strada pubblica e trasformandola irreversibilmente mediante la realizzazione d'interventi di urbanizzazione non autorizzati, quali la costruzione della rete fognaria e l'apposizione del toponimo.
Si costituì il Comune, ed eccepì il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario, invocando la presunzione di demanialità e la dicatio ad patriam, per effetto dell'assoggettamento dell'area a servitù di uso pubblico da tempo immemorabile, ed aggiungendo che gli attori non avevano mai impugnato i provvedimenti relativi agl'interventi effettuati.
1.1. Con sentenza del 10 febbraio 2015, il Tribunale di Lecce accolse la domanda, condannando il Comune al risarcimento del danno, liquidato nella misura di Euro 74.650,00, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
2. L'impugnazione proposta dal Comune è stata rigettata dalla Corte d'Appello di Lecce con sentenza dell'8 febbraio 2019.
A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto generiche le censure mosse alla sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva riconosciuto la spettanza della controversia alla giurisdizione del Giudice ordinario, ribadendo comunque che, in mancanza di un provvedimento ablativo emesso nell'esercizio di un potere amministrativo riguardante l'individuazione e la configurazione dell'opera pubblica sul territorio, la trasformazione del suolo costituiva un'attività meramente materiale dell'Ente.
Nel merito, ha ritenuto non provata la dicatio ad patriam, reputando insufficienti, ai fini della dimostrazione dell'uso pubblico della strada, l'utilizzazione della stessa da parte dei proprietari frontisti, la presenza di opere di illuminazione e del servizio di nettezza urbana e l'esistenza di uno studio medico con accesso al pubblico, e dando atto della mancata dimostrazione dell'utilizzazione della strada per accedere ad altra strada comunale. In contrario, ha attribuito carattere decisivo ad una nota del 19 giugno 1997, con cui il Sindaco e l'Assessore ai lavori pubblici avevano rigettato la richiesta d'interventi di manutenzione avanzata dai proprietari frontisti, evidenziando la proprietà privata dell'area.
La Corte ha ritenuto invece che l'apposizione del toponimo, la realizzazione della rete fognaria, del marciapiede e dell'illuminazione pubblica e l'attivazione del servizio di nettezza urbana costituisse prova della trasformazione irreversibile dell'area, occupata senza titolo da parte dell'Amministrazione, e quindi della condotta illecita di quest'ultima, cessata soltanto a seguito della rinuncia dei proprietari al diritto dominicale, implicita nella proposizione della domanda di risarcimento del danno per equivalente. Rilevato che con la realizzazione delle predette opere i proprietari avevano perso la disponibilità di una superficie di 678,65 mq. inclusa in zona omogenea C, classificata come zona di espansione, e situata in un comprensorio periferico interamente lottizzato, ha ritenuto condivisibile la stima effettuata dal c.t.u. con metodo sintetico-comparativo, in riferimento alla data di proposizione della domanda e con detrazione degli oneri di urbanizzazione.
Ribadito infine che il passaggio della proprietà si era verificato al momento in cui i proprietari avevano optato per la tutela risarcitoria, ha precisato che, in quanto avente carattere meramente abdicativo, la rinuncia non poteva determinare automaticamente l'acquisto della proprietà da parte del Comune, affermando quindi che l'atto da trascrivere era costituito dal provvedimento con cui l'Amministrazione avrebbe provveduto all'effettiva liquidazione del danno.
3. Avverso la predetta sentenza il Comune ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. I D.D. hanno resistito con controricorso, illustrato anche con memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo d'impugnazione, il Comune denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., degli artt. 115, 116, 183 e 184 cod. proc. civ., degli artt. 822, 2697 e 2733 cod. civ. e dell'art. 22, terzo comma, della legge 20 marzo 1865, n. 2248, nonché l'omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, sostenendo che, nel ritenere non provata la dicatio ad patriam, la sentenza impugnata non ha tenuto conto degl'indici fattuali che denotavano l'assoggettamento della strada a uso pubblico, ed in particolare dell'utilizzazione della stessa da parte dei proprietari frontisti, espressamente ammessa dagli attori, dell'inesistenza di limitazioni all'accesso, della realizzazione della rete fognaria e dei servizi di illuminazione pubblica e nettezza urbana, dell'esistenza di un marciapiede percorribile dai pedoni e di uno studio medico con accesso al pubblico e dell'inserimento nella toponomastica comunale. Premesso che tali elementi erano stati ritenuti pacifici dal Tribunale, il quale aveva rigettato le istanze istruttorie proposte al riguardo, afferma che la relativa ordinanza non era stata revocata né dalla sentenza di primo grado né da quella di appello, la quale ha invece attribuito portata decisiva alla nota del 19 giugno 1997, non avente carattere vincolante per il Comune, in quanto proveniente da soggetti non abilitati a manifestare la volontà dell'Ente. Aggiunge che nella specie trovava applicazione la presunzione di demanialità, per la cui operatività sono sufficienti l'ubicazione della strada all'interno dell'abitato, la contiguità alla via pubblica e la comunicazione diretta con il suolo pubblico.
2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost. e degli artt. 112, 194 e 196 cod. proc. civ., nonché l'omesso esame di fatti controversi e decisivi per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver ricollegato la trasformazione irreversibile dell'area alla realizzazione dei servizi di illuminazione pubblica e nettezza urbana, i quali risultavano preesistenti a quelli indicati dagli stessi attori nell'atto di citazione. Aggiunge che la Corte territoriale ha aderito acriticamente alle risultanze della c.t.u., senza prendere in esame i rilievi formulati da esso ricorrente, riflettenti la durata abnorme delle indagini, la mancata indicazione degli elementi assunti come termini di paragone ai fini della valutazione dell'area occupata e l'omessa valutazione delle caratteristiche intrinseche di quest'ultima e della riconducibilità della sua vocazione edificatoria alle opere di urbanizzazione realizzata dall'Amministrazione, nonché del valore aggiunto arrecato dalle stesse all'area residua.
3. Il primo motivo, avente ad oggetto l'esclusione della dicatio adpatriam del fondo occupato, è infondato.
In proposito, la sentenza impugnata si è attenuta al principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la dicatio ad patriam, quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, postula che il proprietario, con un comportamento anche non intenzionalmente diretto a dare vita al predetto diritto, metta volontariamente il proprio bene a disposizione della collettività, con carattere di continuità e non di mera precarietà e tolleranza, assoggettandolo al relativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune dei membri della collettività considerati uti cives (cfr. Cass., Sez. II, 14/06/2018, n. 15618; 22/11/2000, n. 15111), e ciò indipendentemente non solo dai motivi per cui tale comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima (cfr. Cass., Sez. II, 4/06/2001, n. 7481; 21/05/2001, n. 6924; 17/03/1995, n. 3117), ma anche dal decorso di un congruo periodo di tempo o dall'esistenza di un atto negoziale o un provvedimento ablativo (cfr. Cass., Sez. II, 10/12/1994, n. 10574).
La Corte territoriale ha ritenuto infatti non dimostrata la destinazione della strada alle esigenze della collettività, rilevando che, anche alla luce della mancanza di un collegamento con la strada pubblica e del rifiuto opposto dalla Amministrazione comunale all'effettuazione d'interventi di manutenzione del manto stradale, giustificato proprio dalla natura privata dell'area in questione, l'uso della stessa da parte dei proprietari frontisti e di coloro che vi praticavano la loro attività privata (in particolare, uno studio medico), così come la presenza della rete d'illuminazione e l'attivazione del servizio di nettezza urbana, non costituisse prova sufficiente della messa del bene a disposizione dei singoli uti cives, anziché uti singuli. Tali considerazioni si pongono perfettamente in linea con quelle ritenute condivisibili da questa Corte in riferimento ad analoghe fattispecie, ed in particolare all'ipotesi in cui il proprietario si sia limitato a consentire il passaggio pubblico su parte del proprio fondo (cfr. Cass., Sez. II, 22/03/2012, n. 4597; 19/02/2007, n. 3742) o lo abbia consentito per l'accesso agli edifici latistanti o alla strada pubblica, contestando nel contempo interventi di manutenzione o trasformazione effettuati dal Comune (cfr. Cass., Sez. I, 11/03/2016, n. 4851; 16/03/2012, n. 4207): il comune denominatore di tali fattispecie con quella presa in esame dalla sentenza impugnata è costituito infatti dalla mancata dimostrazione della corrispondenza dell'uso da parte di una pluralità di persone alla volontà del proprietario di destinare il bene alla soddisfazione di un'esigenza collettiva, anziché alle necessità di determinati soggetti, accompagnata dalla prova dell'opposizione del proprietario all'ingerenza dell'ente pubblico o dell'astensione di quest'ultimo da interventi idonei a rivelare la predetta destinazione, in virtù delle quali è stato escluso l'assoggettamento del bene alla servitù di uso pubblico.
Il predetto apprezzamento, configurabile come un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità soltanto per inesistenza materiale, mera apparenza, perplessità o grave contraddittorietà della motivazione, oppure per omesso esame di un fatto controverso e decisivo (cfr. Cass., Sez. II, 12/08/2002, n. 12167), non risulta validamente censurato dall'Amministrazione, la quale, nel lamentare quest'ultimo vizio, non è in grado d'indicare circostanze determinanti emerse dal dibattito processuale ed indebitamente trascurate dalla sentenza impugnata, ma si limita ad insistere sul valore probatorio di elementi puntualmente presi in considerazione dalla Corte territoriale, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5 cit. ad opera dell'art. 54, comma primo, lett. b), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547).
3.1. Nell'invocare la presunzione di demanialità delle strade rientranti nel territorio comunale, prevista dall'art. 22 della legge n. 2248 del 1865, all. F.,il ricorrente non considera poi che, ai fini dell'operatività della stessa, non è sufficiente l'inclusione della strada nella toponomastica comunale, avente natura dichiarativa e non costitutiva (cfr. Cass., Sez. I, 15/07/2020, n. 15033).
Tale presunzione, avente peraltro carattere relativo (cfr. Cass., Sez. VI, 6/10/ 2021, n. 27054), non è d'altronde riferibile ad ogni area comunicante con la strada pubblica, ma solo a quelle che, per l'immediata accessibilità, integrano la funzione viaria della rete stradale, in modo tale da costituire pertinenza della strada, occorrendo, nelle altre ipotesi, non solo che l'area sia destinata all'uso pubblico, ma anche che sia intervenuto un atto o un fatto che ne abbia trasferito il dominio alla Pubblica Amministrazione (cfr. Cass., Sez. II, 2/02/ 2017, n. 2795): la predetta funzione integrativa è rimasta nella specie indimostrata, avendo la sentenza impugnata ritenuto non provata l'utilizzazione della strada per accedere ad altra strada comunale ad essa collegata, ed avendo anzi evidenziato, in contrario, che il c.t.u. l'aveva individuata come "strada cieca".
4. Il secondo motivo è infondato nella parte riguardante la riconducibilità della trasformazione irreversibile dell'area occupata a interventi diversi da quelli indicati dagli attori nell'atto di citazione in primo grado.
Com'è noto, in tema di occupazione sine titulo di un fondo di proprietà privata per la realizzazione di un'opera pubblica, a seguito delle pronunce della Corte EDU che hanno ritenuto l'istituto della c.d. espropriazione indiretta contrastante con l'art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, la giurisprudenza di legittimità (cfr. ex plurimis, Corte EDU, sent. 30/05/2000, Carbonara E Ventura c. Italia; 15 e 29/07/2004, Scordino c. Italia; 19/05/2005, Acciardi c. Italia; 21/12/2006, De Angelis c. Italia; 4/12/2007, Pasculli c. Italia), è pervenuta al superamento dell'orientamento, costantemente ribadito per circa trent'anni, secondo cui la trasformazione irreversibile del fondo, intervenuta in presenza della dichiarazione di pubblica utilità non seguita tempestivamente dal decreto di espropriazione, determina l'acquisto della proprietà da parte dell'Amministrazione e la corrispondente perdita da parte del privato, configurandosi al tempo stesso come un fatto illecito a carattere istantaneo, idoneo a far sorgere il diritto al risarcimento del danno, con decorrenza dalla data di scadenza del periodo di occupazione legittima o da quella della trasformazione irreversibile, a seconda che quest'ultima abbia avuto luogo in epoca anteriore o posteriore alla predetta scadenza (cfr. Cass., Sez. Un., 6/05/2003, n. 6853; 26/02/1983, n. 1464; Cass., Sez. I, 17/02/ 2004, n. 3007). Si è infatti affermato che la necessità d'interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte EDU, secondo cui l'espropriazione deve sempre avvenire in "buona e debita forma", comporta che l'illecito spossessamento del privato da parte della Pubblica Amministrazione e l'irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione dell'opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità, all'acquisto della proprietà da parte dell'Amministrazione, configurandosi come un illecito a carattere permanente, che legittima il privato a chiedere la restituzione del fondo, salvo che non decida di abdicare al proprio diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente (cfr. Cass., Sez. Un., 19/01/2015, n. 735). Ciò ha comportato una riunificazione, sotto il profilo che qui interessa, della predetta fattispecie a quella dell'occupazione usurpativa, caratterizzata dalla mancanza originaria o dall'intervenuta scadenza della dichiarazione di pubblica utilità (cfr. Cass., Sez. I, 24/05/2018, n. 12961; 29/09/2017, n. 22929; 5/03/2015, n. 4476), in riferimento alla quale già in precedenza si era ritenuto che, configurandosi l'occupazione come un comportamento di mero fatto, la trasformazione irreversibile del fondo fosse inidonea a determinare l'acquisto della proprietà da parte della Amministrazione, ricollegabile invece alla rinuncia del proprietario al diritto dominicale, implicita nella proposizione della domanda di risarcimento per equivalente (cfr. Cass., Sez. I, 3/05/2005, n. 9173; 16/05/2003, n. 7643; 12/12/2001, n. 15710). Per effetto di tale riunificazione, è venuta meno la rigida distinzione tra le causae petendi delle pretese risarcitorie correlate alle due fattispecie, essendo stati riconosciuti per un verso la possibilità di modificare nel corso del giudizio i fatti allegati a sostegno della domanda (cfr. Cass., Sez. I, 9/04/2015, n. 7137), e per altro verso il potere del giudice di riqualificare la domanda, anche in appello (cfr. Cass., Sez. I, 23/05/2018, n. 12846); è scemata altresì la centralità del tema d'indagine riguardante l'individuazione del momento in cui ha avuto luogo la trasformazione irreversibile del fondo, non più identificabile come fatto generatore della perdita della proprietà, ma solo come presupposto della stessa, e quindi irrilevante sia ai fini della prescrizione della pretesa risarcitoria, decorrente dalla data di proposizione della domanda (cfr. Cass., Sez. I, 7/10/2016, n. 20231; 5/03/2015, n. 4476), che della liquidazione del danno, da effettuarsi in riferimento alla medesima data (cfr. Cass., Sez. I, 24/05/2018, n. 12961).
In tale contesto, deve escludersi che la diversa collocazione temporale della trasformazione che ha determinato l'irreversibile destinazione del fondo alla realizzazione dell'opera pubblica, rispetto a quella individuata dagli attori, abbia comportato una modificazione del fatto costitutivo della domanda, identificabile nell'occupazione illegittima del fondo, la cui qualificazione in termini d'illiceità non ha subìto alcun mutamento sostanziale per effetto della considerazione di ulteriori elementi di fatto emersi dall'istruttoria espletata, sì da potersi concludere per l'insussistenza del vizio di ultrapetizione (cfr. Cass., Sez. I, 12/06/2006, n. 13585).
4.1. Il motivo è invece inammissibile, per difetto di specificità, nella parte riguardante l'omessa valutazione delle osservazioni formulate dalla difesa dell'Amministrazione in ordine all'operato del c.t.u. nominato ai fini della determinazione del valore del fondo occupato, non essendo accompagnati dalla trascrizione dei passi salienti della relazione di consulenza, ma solo del motivo con i quali i predetti rilievi sono stati riproposti in sede di gravame, con la conseguenza che risulta impossibile verificare la pertinenza delle censure proposte, prima ancora della loro fondatezza.
La parte che in sede di legittimità lamenti l'acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio non può infatti limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l'operato, ma, in ossequio al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l'onere d'indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione, e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l'apprezzamento dell'incidenza causale del difetto di motivazione (cfr. Cass., Sez. III, 13/07/ 2021, n. 19989; Cass., Sez. I, 17/07/2014, n. 16368; Cass., Sez. II, 13/06/ 2007, n. 13845).
5. Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 27 marzo 2024.
Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2024.