Danno erariale concessione beni pubblici
Pubblico
Mercoledì, 20 Settembre, 2017 - 15:58
C. Conti Lazio Sez. giurisdiz., Sent., (ud. 06-07-2017) 03-08-2017, n. 197
SENTENZA
nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 74827 del registro di segreteria, instaurato ad istanza del procuratore regionale nei confronti di:
omissis
Letti gli atti di causa;
Uditi alla pubblica udienza del 6 luglio 2017, con l'assistenza del segretario sig. Antonio Fucci, il consigliere relatore dott.ssa Anna Bombino, il P.R. dott. Andrea Lupi, gli avv.ti. Anna Buttafoco, Maria Vertucci, Alessandro Fusillo, Giuseppe Lo Mastro per i convenuti;
Svolgimento del processo
Con atto di citazione, depositato il 14 luglio 2016, la Procura regionale ha chiamato in giudizio i convenuti generalizzati in epigrafe per ivi sentirli condannare al risarcimento, in favore del Comune di Roma Capitale, della somma complessiva di Euro 23.835, oltre al pagamento degli interessi legali e delle spese di giudizio.
La P.R. ha evidenziato una fattispecie ritenuta dannosa che concerne:
- la concessione con atto del 28 febbraio 1983 al Centro studi per la storia dell'Architettura dell'immobile di proprietà del Comune di Roma Capitale sito in R. via P. n. 54 al canone pari a L. 120.000l annue, sino alla data del 1.1.1988;
- in precedenza l'occupazione dell'immobile era conseguita alla deliberazione del Governatore n. 3825 del 26.11.1940;
- dalla data di scadenza della concessione dell'1.1.1988 sino alla data dell'1.8.2016 il Centro ha goduto sine titulo del bene per anni 28 e mesi 8 ed avrebbe dovuto corrispondere al Comune un canone di mercato;
nel maggio 1998 il canone è stato quantificato in L. 3.223.800 annue pari e Euro 1.672,65, canone mensile Euro 139,39;
- nel periodo dall' 1.4.2006 al 31.8.2016, tenuto conto della prescrizione, pari a n. 125 mesi 125 il Centro avrebbe dovuto corrispondere l'importo di Euro 17.423,75 che rivalutato dal 1998 (1,368) ammonta a Euro 23.835,69, somma che costituisce il danno complessivo subito dal Comune di Roma;
In base a quanto accertato in sede istruttoria il P.R. è dell'avviso che l'illecito imputabile nel corso del tempo ai soggetti destinatari del presente atto, nella loro qualità di dirigenti della Direzione Gestione amministrativa del Dipartimento del patrimonio del Comune di Roma, consista nell'avere omesso di richiedere l'aumento del canone, cagionando un danno economico al Comune per avere permesso al Centro di godere ingiustificatamente dell'immobile ad un canone ridotto pur non esistendo un valido ed efficace titolo concessorio giustificativo del suo possesso
In base a quanto esposto il P.R. ritiene che:
- tutti gli oneri ingiustificati in precedenza indicati costituiscano danno per l'amministrazione:
- di tutti i danni subiti dall'amministrazione, i destinatari dell'atto di citazione nella loro qualità di dirigenti dell'ufficio competente ad attivare la procedura finalizzata alla quantificazione del canone di mercato ed ad ottenere il pagamento del dovuto e la restituzione dell'immobile;
- nella condotta dei soggetti destinatari dell'atto di citazione sia rinvenibile quantomeno l'elemento soggettivo della colpa grave. Tale colpa grave consiste nella illecita applicazione della disciplina contenuta nello scaduto atto concessorio, e quindi nell'aver consentito il possesso dell'immobile senza che fosse stato preventivamente emanato un idoneo atto di concessione, nel non aver fatto pagare il canone di mercato e nel non aver immediatamente richiesto la restituzione dell'immobile: sarebbe bastato tenere aggiornato uno scadenzario delle concessioni;
- sussista il richiesto nesso di causalità tra la condotta ascrivibile ai soggetti destinatari del presente atto e gli oneri finanziari ingiustificatamente sostenuti dall'Amministrazione;
- non debba essere disposta alcuna riduzione dell'addebito;
- in termini generali, non sia condivisibile che i soggetti convenuti in giudizio siano condannati dalla Sezione giudicante ad una somma "comprensiva di rivalutazione e/o interessi" poiché il giudice deve esaurientemente motivare in merito al calcolo di rivalutazione ed interessi, chiarendo quale sia il metodo seguito (es. indici Istat) e l'importo esatto di tali elementi, da distinguere nettamente rispetto alla somma capitale.
Il P.R., a seguito della notifica degli inviti a dedurre, non ha ritenuto le esaminate deduzioni depositate tali da escludere le contestate responsabilità.
Pertanto il P.M. ha citato in giudizio gli odierni convenuti chiedendo alla Sezione la condanna dei medesimi al pagamento in favore del Comune di Roma capitale della somma di Euro 23.835,65, oltre alla condanna al pagamento di Euro 190,68 per ogni mese successivo al 31.8.2016 sino alla riacquisizione del bene (danno futuro, in proporzione al periodo di dirigenza dell'ufficio da parte di ciascuna di esse.
In ogni caso con condanna dei convenuti al pagamento degli interessi dalla data di emanazione della sentenza fino al saldo e alle spese di giudizio.
E' presente, in atti, appunto del P.R. in cui si svolgono talune considerazioni riferite a tutti i giudizi iniziati concernenti l'assegnazione di beni del patrimonio comunale a soggetti terzi per finalità sociali e culturali così riassunte:
la prescrizione si ritiene non maturata in quanto, ove nell'ultimo giorno del quinquennio si fosse attivata una azione di recupero, il danno si sarebbe potuto evitare;
- la chiamata in giudizio è stata estesa anche ai soggetti che, dopo i 120 giorni, non si sono attivati per ottenere la restituzione dell'immobile ed il pagamento dell'intero canone concessorio;
- è stata chiamata in giudizio la dott.ssa A. e non i suoi successori in quanto i successori si sono trovati in una situazione ormai compromessa;
- la chiamata in giudizio ha riguardato coloro che sono stati in servizio per almeno un anno;
- in caso di occupazione abusiva sine titulo sono stati chiamati in giudizio i dirigenti degli ultimi dieci anni dell'ufficio competente;
- in ipotesi di doppia concessione dopo i 120 giorni, entrambe sono state ritenute illecite anche perché assentite senza i prescritti pareri;
- il canone richiesto era sempre del 20% e ciò configurerebbe dolo e motivo per non far luogo al potere riduttivo;
- non si provvedeva ad eseguire gli sgomberi e tutte le concessioni a maggio del 2016 risultavano scadute;
- nel termine di 120 giorni doveva essere intervenuto il provvedimento di concessione;
- la concessione doveva essere risolta per il mancato pagamento di tre annualità, ma non vi sono state conseguenze;
- in alcuni casi il concessionario svolgeva attività commerciali senza rispetto delle norme di sicurezza;
- si sono verificati casi di rinuncia alla concessione e di subentro di altro soggetto non previsto dall'ordinamento;
- mancato rispetto del termine di 90 giorni fissato per la presentazione della domanda prevista dall'art. 3 comma 3 della del. n. 26/1995;
- l'istruttoria non è stata quasi mai completata nei 120 giorni previsti e l'ordinanza è stata solo un mezzo per attribuire gli immobili;
- il danno è stato determinato nella differenza tra il canone di mercato e quello del 20% corrisposto in quanto la finalità non era colpire la morosità del concessionario, ma censurare la mancata pretesa del canone intero in mancanza di regolare concessione.
Si è costituita in giudizio la dott.ssa T., con memoria del 15.6.2017, con la quale ha precisato di avere assunto l'incarico presso il Dipartimento III Politiche del patrimonio Progetto Speciale in data 20.10.2006, senza passaggio di consegne, mantenuto sino all'11.10.2007 (per 11 mesi) evidenziando la complessità e molteplicità delle competenze ad essa attribuite a fronte di un organico sottodimensionato, del quale ha denunciato le carenze strutturali, senza alcun riscontro da parte degli organi di vertice.
Ha confermato l'affidamento della gestione amministrativa e tecnica del patrimonio immobiliare comunale alla società R.G. Spa, con contratto del 30.9.2005.
Con riferimento alla domanda della P.R. ha eccepito l'insussistenza dei presupposti dell'azione con riferimento:
- assenza di danno a ragione del carattere indisponibile dei beni concessi dal Comune a privati ad un canone ridotto al 20% di quello di mercato escludendosi un utilizzo degli stessi a canone di mercato, come riconosciuto dalla recente sentenza n. 76/2017 di questa sezione. In ogni caso, anche dopo la scadenza del termine di 120 gg. la dirigente non avrebbe potuto sottrarsi dall'adozione dei provvedimenti concessori, esponendo diversamente l'Amministrazione a possibili azioni giudiziarie per l'annullamento degli atti e per il risarcimento dei danni, escludendo i regolamenti comunali, in caso di inosservanza, le sanzioni indicate dalla P.R., tanto più che l'art. 4 del regolamento 202/96 prevede la regolarizzazione e l'assegnazione in concessione degli immobili dell'amministrazione comunale alle associazioni che svolgono attività che rivestono forte valenza sociale e si configurano come servizi alla collettività " che non possono essere interrotti se non con gravi pregiudizi per l'utilità sociale".
- prescrizione quinquennale considerando che la condotta contestata dalla P.R. risale al periodo in cui essa era Responsabile della V U.O. Gestione amministrativa patrimoniale (20.10.2006-101.10.2007), e, quindi, oltre il termine prescrizionale di cinque anni previsto dall'ordinamento per l'attivazione dell'azione erariale, opponendosi alla prescrizione decennale basata dall'attore sulla qualificazione dell'illecito contabile permanente e ravvisando in tale fattispecie un illecito istantaneo con effetti permanenti nel quale il comportamento contra ius dell'agente si esaurisce con il verificarsi dell'evento dannoso, pur perdurando nel tempo le conseguenze dannose dell'illecito, per le quali occorre una nuova e diversa azione.
- la superficialità degli accertamenti prodromici all'atto di citazione avendo la P.R. omesso di procedere alle indagini del caso con la diligenza e delicatezza richieste dalle singole posizioni avviando procedimenti indiscriminati a "cascata", senza svolgere adeguata istruttoria.
La stessa dirigente è stata destinataria di un centinaio di inviti a dedurre, molti dei quali riferiti a procedimenti avviati prima della sua assegnazione alla V U.O., gestiti alle loro scadenze da soggetti terzi (R.G. SPA) a dimostrazione della sommarietà con cui sono state avviate le azioni di responsabilità da parte della Procura. Inoltre ad essa non può essere addebitata la responsabilità di avere omesso di scadenzare la definizione del procedimento amministrativo in questione, posto che l'avvio di detto procedimento non è stato mai posto alla sua attenzione né alla stessa competeva il monitoraggio delle scadenze relative alle concessioni del patrimonio immobiliare del comune in quanto affidato alla R.G. spa mediante appalto comprendente ogni aspetto della gestione amministrativa del patrimonio immobiliare, come il censimento dell'utenza, la gestione delle posizioni senza titoli, calcolo e aggiornamento dei canoni e le morosità;
- esclusione dell'elemento soggettivo del dolo e
della colpa grave nella condotta tenuta dalla dirigente, tenuto conto dell'inadeguatezza organizzativa e di carenza di personale dell'apparato amministrativo in cui essa ha operato, cui la stessa ha cercato di far fronte con il massimo impegno, e nella breve durata dell'incarico (11 mesi) presso la U.O.
La dott.ssa M. si è costituita in giudizio con memoria del 16.6.2017 eccependo l'inammissibilità, l'improcedibilità e la nullità della citazione, anche per assoluta indeterminatezza e genericità degli addebiti contestati, per mancanza degli elementi essenziali ex art. 86 del codice giustizia contabile, nonché per l'illegittima integrazione operata con l'"Appunto", privo di data depositato dal P.R., la prescrizione dell'azione, l'infondatezza in fatto e in diritto della domanda per mancanza degli elementi costitutivi della responsabilità contabile e per manifesta carenza probatoria della domanda.
In via preliminare, la convenuta ha ipotizzato un caso di abuso del processo da parte della procura erariale in conseguenza delle centinaia di citazioni di identico tenore emesse a carico della medesima persona e per fattispecie analoghe, in violazione dei principi sanciti dagli artt. 24 e 111 della Cost. e dell'art. 6 della CEDU.
Dalla ricognizione delle disposizioni regolamentari che disciplinano la materia delle concessioni dei beni del patrimonio indisponibile del Comune di Roma, la convenuta è pervenuta ad una interpretazione del tutto confliggente con quanto sostenuto dal P.R. nell'atto di citazione posto che:
a) non sussiste alcun automatismo tra cessazione o decadenza della concessione a canone ridotto e successiva concessione a canone di mercato;
b) l'Amministrazione può procedere a riassegnare il bene a canone ridotto, ricognitivo o convenzionato anche in caso di precedenti concessioni od occupazioni senza titolo, venendo in rilievo la natura della destinazione che l'amministrazione intende dare al bene (art. 3 dispos. di prima attuazione e transitorie);
c) per rientrare nel possesso del bene per fini di pubblico interesse l'Amministrazione deve procedere a revocare la concessione e successivamente notificare al concessionario ordinanza di rilascio del bene entro 90 gg..
L'assegnazione di spazi e di strutture di proprietà comunale per favorire la realizzazione di finalità sociali, assistenziali e culturali è stata valorizzata con la deliberazione C.C. n.26/95 e, integrata dalla deliberazione C.C. n. 202/96. Tale normativa mira a regolarizzare le occupazioni senza titolo e regolamentare le nuove assegnazioni, creando così un circuito chiuso di beni destinati in modo stabile a determinate finalità di carattere sociale.
Con riferimento all'immobile de quo, la convenuta precisa che il Centro studi per l'Architettura, dichiarato ente morale con D.P.R. del 25 luglio 1952, n. 4573, con sede nella cosiddetta "Casa dei Crescenzi" avuta in concessione dal demanio dello Stato ha ottenuto in concessione, nel 1940, i locali di circa mq 33 adiacenti alla Casa dei Crescenzi, costituiti da un locale a piano terra privo di aria e di luce e l'altro a primo piano a cui si accede con una scaletta. L'accesso ai locali è consentito solo attraversando la casa dei Crescenzi che appartiene al demanio dello Stato e, pertanto, i locali costituiscono una pertinenza del Centro medesimo.
Con deliberazione C.C. n.4325 del 26.10.1982 l'immobile veniva destinato al Centro e disposto il rinnovo della concessione, sottoscritto il 28 febbraio 1983 per la durata di sei anni ad un canone annuo di L. 120.000 con scadenza 1988. Alla scadenza della concessione sorgevano contrasti tra le parti in ordine all'entità del canone applicato dall'amministrazione.
Con nota del 8.1.2003 prot. n. (...) la Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio comunicava al Comune di Roma di aver avviato la procedura per l'emanazione del provvedimento "per la tutela monumentale architettonica della Casa dei Crescenzi, sita in via P., in considerazione del rilevante interesse storico artistico dell'edificio in questione".
La Procura non avrebbe mai contestato l'attività del Centro nello spazio di via P..
Sostiene, pertanto, la convenuta l'insussistenza dell'illecito contabile ipotizzato nel caso di specie stante la non riconducibilità del bene in oggetto a prerogative e compiti assegnati alla V.U.O., l'assenza di profili di danno erariale, l'assenza di condotte illecite ad essa imputabili, la diligenza e correttezza della medesima.
Evidenzia una preesistente disorganizzazione degli uffici e carenza di personale di cui non si è tenuto minimamente conto.
Afferma l'insussistenza dell'elemento oggettivo sul presupposto delle sentenze di questa sezione che hanno accertato l'insussistenza dell'elemento oggettivo e del danno erariale in fattispecie analoghe, tenendo altresì conto del fatto che il bene de quo non rientrava tra quelli oggetto delle competenze attribuite all'Ufficio della dott.ssa M., ma destinato stabilmente ad ospitare il centro studi per la storia dell'architettura; la P.R. ha poi trascurato l'affidamento dell'appalto di gestione dei beni alla R.G. spa che escludeva, da parte dei dirigenti dell'Unità V.U.O., qualsiasi accertamento circa le morosità dei soggetti concessionari e delle conseguenti attività di recupero giudiziali e stragiudiziali affidate alla medesima società.
Ha sostenuto l'inesistenza di un danno erariale certo, attuale e concreto e la erronea quantificazione di esso.
L'atto di citazione sarebbe carente su tali aspetti non offrendo elementi probatori circa la esistenza del danno certo e attuale derivante da violazione di norme giuridiche, avendo la P.R. ravvisato un automatismo tra l'inefficacia della ordinanza sindacale e l'applicazione del canone a prezzo di mercato, automatismo smentito dalle deliberazioni che hanno disciplinato la materia, posto che il locale di mq. 33, inserito all'interno di un immobile demaniale, non poteva essere locato a canone di mercato, ma in ogni caso sarebbe dovuto essere concesso in uso ad associazioni ed enti del terzo settore per scopi di utilità sociale e sempre a canone agevolato.
Secondo l'assunto difensivo, la P.R. avrebbe ignorato sia la natura e la destinazione dei locali in oggetto, sia la rilevanza della deliberazione del C.C. n. 4325 del 1982 di destinazione del bene, sia delle condizioni in capo al Centro per stipulare il contratto di concessione, sia il vantaggio conseguito dall'Amministrazione con il valore sociale aggiunto prodotto dall'Associazione, oltre al canone regolarmente pagato dal Centro. Manca, inoltre, qualsiasi riferimento da parte dell'accusa alla eventuale situazione di inesigibilità delle pretese di pagamento vantate dall'Amministrazione, riconosciuta dall'Autorità giudiziaria competente con una pronuncia con efficacia di giudicato.
Sotto il profilo soggettivo, ha evidenziato l'assoluta mancanza della colpa grave nella condotta da essa tenuta nella vicenda in esame, considerato che aveva svolto l'incarico presso la V. U.O. dal 14 maggio 2008 al 18 gennaio 2010, in prima assegnazione, senza passaggio di consegne stante la vacanza da otto mesi del dirigente, sostituito dal Direttore del Dipartimento.
La difesa eccepisce anche la prescrizione dell'azione tenuto conto che l'invito a dedurre è stato notificato il 3.3.2016 e, quindi, tardivamente rispetto alla data di cessazione dell'incarico (18 gennaio 2010) da cui far decorrere il termine prescrizionale quinquennale di legge.
Ha chiesto altresì la compensatio lucri cum damno, riconoscendo le rilevanti utilità conseguite dal Comune e per effetto della concessione in uso dei locali in favore del Centro.
Ha chiesto, infine, la riduzione dell'addebito e la previa riunione del procedimento con altri pendenti ex art. 84 del Codice di giustizia contabile.
L'arch. F. si è costituita in giudizio con il patrocinio degli avv.ti Alessandro Fusillo e Jacopo Vavalli eccependo la prescrizione dell'azione dal momento che il danno si è prodotto tra l'1.4.2006 e il 31.8.2016 e, pertanto, esso si è determinato alla data di cessazione dell'incarico (17.11.2010 al 17.5.2011) dovendosi escludere che la stessa possa rispondere anche dei danni futuri. La prescrizione è iniziata quindi a decorrere il 17.5.2011 ed è scaduta il 17.11.2016 mentre l'invito a dedurre è stato notificato il 9.3.2016 per cui sono da considerare prescritti i danni antecedenti, salvo il breve periodo dal 9.3.2011 al 17.5.2011, data di cessazione dell'incarico.
Ha evidenziato la brevità dell'incarico svolto presso la V U.O. dal 17.11.2010 al 17.5.2011, diversamente da quanto indicato nell'atto di citazione dal 23.7.2010 al 17.6.2012, rispetto al periodo in cui è stato prodotto il danno perseguito dalla P.R. (dal 4.6.2006 al 31.8.2016), essendo transitata alla direzione del Dipartimento, posta in aspettativa e cessata dall'incarico il 20.2.2012.
In ogni caso, la verifica delle singole posizioni erano svolte da funzionari di livello inferiore, come nel caso il dott. Colalillo, quale responsabile unico del procedimento per il servizio competente delle concessioni degli spazi sociali.
Ha rilevato che l'immobile de quo non appartiene alla competenza del Dipartimento patrimonio e della V U.O., ma è gestito dalla Soprintendenza comunale alla quale spetta la gestione operativa dei dati sul Patrimonio e recupero degli immobili appartenenti al demanio dei beni culturali di Roma Capitale.
Ha altresì riconosciuto che l'immobile de quo era stato affidato alla R.G. spa con contratto rep 8500 del 30.9.2005, la quale aveva la responsabilità della gestione degli immobili ed era tenuta a redigere un inventario degli stessi, a rilevare eventuali situazioni di occupazione abusiva ed a fornire al Dipartimento del Patrimonio uno scadenziario concernente le date di cessazione delle concessioni. Ha sostenuto l'insussistenza del danno erariale atteso che l'immobile de quo è insuscettibile di utilizzazione a canone di mercato stante la destinazione sociale dello stesso in forza dei regolamenti comunali n. 5625/1983, 26/1995, 202/1996, per cui non sarebbe stata possibile una utilizzazione al canone di mercato, escludendo, pertanto, un nesso causale tra la condotta illecita dell'assegnatario e l'asserito danno erariale. Ha ripercorso le vicende che hanno interessato il Centro studi per la Storia dell'Architettura, fondato nel 1939 ed eretto in ente morale nel 1952, i cui beni sono vincolati con dichiarazioni di notevole interesse storico e culturale del 1984 e 1991, rientranti nella competenza della Soprintendenza comunale istituita con O.S. n.162/1997. Nel caso di specie, la porzione per cui è causa (la maggiore consistenza dell'immobile è di proprietà del demanio dello stato) è costituita da due piccoli locali non comunicanti tra loro, di cui uno al piano terra di circa mq 30 e un altro al primo piano di mq 14. Ad essi si accede dall'immobile di maggior consistenza di proprietà del demanio dello Stato. I locali costituiscono pertanto una pertinenza di quello di maggior consistenza e sono insuscettibili di una diversa utilizzazione e, per essi, il Centro ha sempre pagato il canone ricognitivo fissato nell'atto di concessione del 1983. La morosità sussiste rispetto all'ipotetico canone di mercato stimato dalla P.R. in base a non meglio specificati criteri, mai accettato dal Centro, a fronte dei pagamenti regolarmente effettuati dal concessionario del canone meramente ricognitivo, come stimato nel contratto stipulato nel 1983.
Ciò escluderebbe qualsiasi responsabilità della dirigente in ordine agli addebiti contestati, in presenza di un bene appartenente alla Soprintendenza comunale e del regolare pagamento dei canoni da parte del Centro, tant'è che le richieste del Dipartimento del Patrimonio di riacquisire il bene sono state fortemente avversate sia dal Centro stesso che dal MIBACT, titolare del bene di cui le due porzioni in oggetto fanno parte.
Ha escluso pertanto la sussistenza del danno certo e attuale a fronte delle iniziative sollecitate dalla stessa P.R. e gli effetti pratici dell'azione di risarcimento erariale rischiano di essere ingiusti ed iniqui. Infatti, da un lato l'amministrazione sta agendo per il recupero del canone di mercato, dall'altra la Procura agisce contro i dirigenti per il recupero delle medesime somme, dando luogo ad una sovrapposizione di azioni non risolvibili in via esecutiva trattandosi di una azione priva dei requisiti di legge (Corte conti Sez. II app. 18.3.2015 n.126).
Anche la revoca ipotizzata dalla P.R. deve essere vagliata in concreto sulla base di un giudizio comparativo tra l'interesse pubblico e la posizione consolidata del Centro dovendo sussistere un interesse pubblico attuale e concreto a sostegno dell'esercizio del potere di autotutela entro un termine ragionevole, che nel caso di specie, era ampiamente decorso allorquando l'arch. F. ha assunto l'incarico di direzione della V U.O. in data 17.11.2010, tenuto conto anche della situazione concreta del fabbricato che non può essere attribuito ad un soggetto diverso dal CSSAR, privo del valore di mercato autonomo o possibile utilizzazione.
L'accusa non avrebbe fornito alcuna prova del danno arrecato all' Amministrazione dalla occupazione abusiva dell'immobile, l'entità dello stesso e il nesso causale tra condotta della dirigente e il danno.
Contesta l'assunto attoreo secondo cui il danno coinciderebbe con l'illegittimità dell'azione amministrativa e con il lucro cessante giacché, se gli immobili fossero stati liberati, alle casse comunali sarebbe derivato un introito pari al canone di mercato. Rispetto al primo profilo, la mera illegittimità dell'atto amministrativo non è oggetto di accertamento da parte del giudice contabile e non è di per sé produttiva di danno, mentre dall'altro non sono indicate le ragioni per le quali l'amministrazione avrebbe dovuto attendersi di incassare un canone di mercato per i locali in oggetto, pure richiesto dall'Amministrazione.
Ha invocato, invece, l'applicazione dell'art. 3 del citato regolamento in forza del quale, alla scadenza della concessione, l'Amministrazione deve provvedere al rinnovo sempreché sussistano fondate ragioni per rientrare nel possesso del bene, fermo restando che, per il periodo di occupazione senza titolo, il concessionario è tenuto a pagare il medesimo canone già pagato vigente il titolo concessorio.
In subordine, potrebbero applicarsi, nel caso, le disposizioni di cui agli artt. 1591 c.c. e 56 L. n. 392 del 1978 che prevedono, a titolo di indennizzo, per occupazione sine titulo, l'incremento del canone del 20% rispetto a quello pagato precedentemente.
Ha, infine, evidenziato le difficoltà concrete delle ipotizzate azioni di sgombero da parte del Comune per il recupero degli immobili occupati, nonché la mancanza di volontà politica e delle stesse forze di polizia per attuare tali interventi, le cui inefficienze non possono essere addebitate al singolo dirigente.
La convenuta ha prodotto nota spese redatta utilizzando la tariffa minima del D.M. n. 140 del 2012.
La convenuta B. precisa che ha svolto l'incarico di Direttore della V U.O. Concessioni - Ufficio Spazi sociali solo per un brevissimo periodo dal 18 giugno 2012 al 12 giugno 2013 (199 gg.), come risulta dalla nota di Roma capitale n. 34383 del 28.12.2016 e che, sin dal 2005, il Comune di Roma aveva affidato ben tre deleghe alla R.G. SPA nell'ambito dell'incarico di monitoraggio e censimento del patrimonio comunale, di controllo circa la legittimità del titolo e la responsabilità delle singole posizioni, cui si affiancavano le attività ordinarie affidate alla P.O. dell'Ufficio, cui era preposto un funzionario responsabile dell'istruttoria; la stessa aveva posto all'attenzione del Dipartimento proposte per la regolamentazione del canone delle concessioni in atto e per l' approvazione del nuovo regolamento sulle concessioni, tutte proposte rimaste senza alcun riscontro degli organi di governo dell'Ente.
Con riferimento ai locali in oggetto, ha precisato che trattasi di due locali di servizio non comunicanti tra loro, di cui uno posto a piano terra e un secondo a primo piano, siti in via P. n. 54 nel più ampio fabbricato di proprietà del demanio dello stato, classificato come bene storico monumentale "Casa dei Crescenzi" di competenza della Soprintendenza comunale sin dal 1990. L'accesso ai locali è consentito esclusivamente dall'immobile del demanio dello stato. Gli immobili sono stati destinati dall'Amministrazione a "spazio sociale" ed assegnati al Centro studi per la storia dell'Architettura, ente morale dal 1939, ed il rapporto concessorio è, quindi, regolato dai regolamenti comunali che prevedono l'assegnazione ad un canone ridotto nella misura del 20% di quello di mercato, secondo la stima effettuata autoritativamente dall'Amministrazione concedente (Regolamento approvato con delibera C. C. n.5625 del 1983). L'eventuale inefficacia dell'O.S. e/o la scadenza dell'atto di concessione non legittima l'Ente ad applicare il canone di mercato stante la destinazione vincolata dei beni destinati a spazio sociale.
L'art. 3 delle dispos. Att. del regolamento comunale stabilisce due principi inderogabili:
a) riconosce all'attività dell'Ufficio una attività discrezionale circa la valutazione sulla opportunità o meno di recuperare la disponibilità dell'immobile e la scelta circa la restituzione si appalesa insindacabile in questa sede;
b) prevede l'applicazione del canone ridotto sia nel caso di occupazioni sine titulo, sia nel caso di concessioni scadute. Tale scelta dell'Amministrazione è giustificata dal fatto che considera detta redditività "seppur ridotta .... di maggior profitto per le entrate comunali" (pag. 4 Del C.C. 202/96).
Dall'esame del fascicolo, la Procura avrebbe dovuto rilevare come l'asserito danno, se ricondotto al mancato rinnovo della concessione, si è configurato in data 1.1.1988, rispetto al quale nessuna contestazione può essere mossa alla B., atteso che il Centro sino all'anno 2015 ha sempre corrisposto il canone (su base annuale, mentre la concessione è stata fatta oggetto di rinnovo tacito, in ragione del silenzio assenso formatosi sulla richiesta di rinnovo). Infatti la concessione nel prevedere che per il rinnovo della concessione è sufficiente la mera richiesta del concessionario, stabilisce l'obbligo in capo alla P.A. di provvedervi, escludendo qualsiasi ipotesi di discrezionalità, anche sulla base del principio di continuità degli atti amministrativi.
Alcuna corrispondenza risulta in atti, durante la dirigenza della convenuta. Ha negato, pertanto, qualsiasi coinvolgimento nella fattispecie in esame laddove la P.R. ritenendo che la richiesta di restituzione fosse un'attività necessitata, ha sostenuto una responsabilità in capo alla medesima per un fatto risalente al 1.1.1988, pur non essendo in servizio presso il Comune di Roma e non avendo conoscenza del fascicolo.
Sulla base della cronologia temporale degli atti emanati dal Comune riferiti all'immobile de quo, la convenuta ha escluso qualsiasi responsabilità diretta nella vicenda per difetto di colpa grave e del nesso causale tra la condotta e il danno per come asseritamente sostenuto nella domanda, evidenziando la carenza di una approfondita attività istruttoria della P.R. in tutte le fattispecie di danno ad essa riferite, appalesandosi, da parte della P.R., una attività vessatoria nei suoi confronti, in contrasto con i principi del giusto processo (art. 111 Cost.).
Ha dedotto l'inammissibilità della domanda per genericità delle accuse formulate a suo carico, per l'esistenza del precedente giudicato della sentenza n. 486/2015, per errata interpretazione delle norme regolamentari applicabili alla fattispecie in esame, rispetto ai quali ha tenuto una condotta diligente ed adeguata, pur in presenza di note disfunzioni dell'apparato organizzativo e di carenza di personale dell'Ente.
Con riferimento al danno ha contestato la prospettazione attorea sulla scorta delle sentenze già emesse dalla sezione in fattispecie analoghe che hanno respinto le tesi accusatorie sul presupposto che l'Ente è assoggettato al vincolo derivante dal regolamento di applicare un canone commisurato al 20% del valore di mercato, e che la richiesta di restituzione rientrava nel potere discrezionale dell'Ufficio e non già in un'azione necessitata. Del resto la facoltà di richiedere la restituzione dell'immobile era stata affidata alla società R.G. spa con apposito contratto di appalto, sottoscritto nel 2005, di cui non è stato tenuto conto dall'organo inquirente.
Né ha tenuto presente che il Centro ha sempre corrisposto il canone ridotto (almeno durante la dirigenza B.), determinato nella misura vincolante del 20% del valore di mercato per cui è da escludere una qualsiasi riduzione patrimoniale a danno dell'Ente. Ciò vale anche in ipotesi di occupazione sine titulo per espressa previsione dell'art. 3 disp. Att. Del Regolamento comunale.
Ha escluso che il danno, nella fattispecie in esame, possa essere determinato sulla base del canone di mercato intero, mancando la prova che, ove questo fosse stato acquisito al patrimonio dell'Ente, sarebbe stato dato in concessione a da quale momento e in quale misura.
La domanda della P.R. è quindi infondata in quanto:
a) la diminuzione patrimoniale per l'ente non si è verificata;
b) non vi è una quantificazione certa dell'asserito danno;
c) il bene in oggetto non ha una valutazione di mercato autonoma rispetto al complesso immobiliare cui inerisce.
Il danno sarebbe relativo solo al 2016, per canoni non riscossi, e comunque non certo attuale e concreto, in quanto riscuotibile dall'Ente.
Con riferimento all'elemento psicologico della colpa grave, la convenuta ha richiamato le condizioni organizzative e ambientali precarie in cui ha operato durante la dirigenza dell'V U.O. (svolta dal 18.6.2012 al 12.6.2013), nel tentativo di riorganizzare l'ufficio ed evadere le numerose pratiche pendenti, come risulta dall'Ufficio di protocollo. Né può esserle imputato il mancato rinnovo della concessione già scaduta in data in cui la stessa non era dipendente del Comune.
Manca, quindi, anche il nesso causale tra la condotta e il danno asserito dalla P.R., giacché la decadenza dell'atto di concessione indicata nella data dell'1.1.1988 si è verificata durante il periodo di dirigenza di altro funzionario e quindi evento ad essa non addebitabile.
Ha invocato il concorso di colpa dell'ente nella causazione del danno sotto il profilo delle carenze organizzative dell'ufficio, di mezzi e di personale addebitabili alle figure apicali dell'Ente (art. 1227 c.c.).
Ha eccepito la prescrizione quinquennale risalendo i fatti in contestazione all'1.1.1988.
In definitiva, ha chiesto l'assoluzione da tutti gli addebiti mossi dall'accusa, in via subordinata, la riduzione dell'addebito.
Con memoria del 14.6.2017 si è costituita la convenuta A. con il difensore avv. Giuseppe Lo Mastro il quale ha eccepito l'infondatezza della domanda sotto il profilo della mancanza di danno erariale sulla scorta delle motivazioni delle recenti pronunce n. 76 e 78 del 2017 di questa sezione che hanno mandato assolta, tra gli altri, l'A. per fattispecie dannose analoghe a quella in esame.
Ha dedotto l'inammissibilità e l'infondatezza delle pretese attoree anche per mancanza di prova ed escluso la colpa grave tenuto conto delle condizioni obiettive del Dipartimento del patrimonio come riconosciuto dallo stesso P.R. nell'Appunto depositato in tutti i giudizi relativi alla gestione degli immobili comunali.
Ha precisato che l'affermazione del requirente circa il mancato pagamento del canone non è veritiera in quanto il Centro ha corrisposto il canone pattuito dal 2004 al 2015. Il Centro studi per la storia dell'Architettura, fondato nel 1938, insediato nella Casina dei Crescenzi, di proprietà del demanio dello Stato, posta in aderenza ai locali comunali in questione non può essere considerato tra i soggetti concessionari che gli indirizzi dell'Amministrazione per il riordino del patrimonio indisponibile in concessione individua come prioritari. I due locali di proprietà comunale oggetto della concessione consistono in un piccolo ambiente archivio, con servizio igienico, situato al primo piano di 13 mq e di uno scantinato adibito a magazzino di circa mq 40 (complessivamente 33 mq).
Nella sua attività la convenuta si è occupata di predisporre gli atti generali di disposizione del patrimonio comunale a fronte di regolamenti datati e non adeguati alle nuove necessità al fine di un riordino del complesso patrimonio disponibile ed indisponibile del Comune di Roma (Del G.M. n.140 del 30.4.2015, Deliberazione G.M. n.19 del 27.2.2017).
In conclusione, ha rappresentato:
a) la mancata contestazione da parte della P.R. dei fatti, eccezioni e documentazione prodotta dalla convenuta nell'atto di costituzione (art. 115 c.p.c.);
in rito:
1) L'inammissibilità e la nullità degli atti della fase istruttoria e della fase dibattimentale per violazione dei principi di cui alla L. n. 241 del 1990 e s.m. e del Codice della Giustizia contabile e degli artt. 24 e 111 Cost. e della Convenzione dei diritti dell'Uomo;
2) la nullità per violazione delle norme che vietano attività istruttorie in assenza di concrete e specifiche notizie di reato, contestando altresì i fatti esposti nella domanda e le deduzioni del P.M. circa le modalità di acquisizione della notizia di ipotesi di danno erariale (art. 51 e 53);
Nel merito:
1) L'inammissibilità e l'infondatezza delle domande del P.R. in fatto e in diritto e per omessa prova;
2) Il rigetto delle domande per inesistenza del danno e per inesistenza di un rapporto causale tra comportamenti addebitati alla convenuta e il presunto danno erariale.
3) L'intervenuta acquiescenza della Procura al giudicato della sentenza n. 486/2015;
4) Il rigetto della domanda per inesistenza ed omessa prova della colpa grave nella condotta della convenuta;
5) In via subordinata, ha chiesto di quantificare la quota di danno addebitabile alla A. tenendo conto della quota di danno da addebitare ai soggetti non convenuti in giudizio; in via istruttoria, ha chiesto l'espletamento di una CTU per la quantificazione del presunto danno erariale, nonché prova testimoniale sull'attività svolta dall'A. nel periodo di direzione dell'Area Gestione Amministrativa del Dipartimento Patrimonio e dei vantaggi conseguiti dall'Amministrazione.
In prossimità dell'odierna udienza il V.P.R. ha depositato in Segreteria uno scritto intitolato "Note a verbale", da riferirsi a tutti i giudizi in trattazione, nel quale, richiamata la normativa riferita alle concessioni comunali di beni immobili appartenenti al patrimonio indisponibile del Comune di Roma (Deliberazione n. 5625/1983, del. N. 26/1995) e ampia giurisprudenza civilistica in tema di occupazioni illecite, ha affermato che la stessa non è stata mai applicata dal Comune di Roma, in quanto non risulta un elenco dei beni da assegnare annualmente in concessione, per cui la destinazione del bene è sempre stata individuata in base alla natura del soggetto destinatario ed all'attività svolta nell'immobile, l'assenza di gara per l'assegnazione in concessione degli immobili, ed è stato perpetuato così un sistema di assegnazioni provvisorie con ordinanze sindacali, come mezzo per permettere l'immissione nel possesso dell'immobile da parte di soggetti in carenza di gara e di conclusione positiva del complesso procedimento previsto per l'emanazione del provvedimento concessorio definitivo. Le suddette ordinanze non risultano regolarizzate nel termine previsto di 120 gg (riferito a n. 12 giudizi odierni) ovvero regolarizzate dopo lungo tempo (con atti da ritenere non validi ai sensi dell'art. 4 della liberazione n. 26/95 e dell'art. 12 ultimo comma della deliberazione n. 5626/1983), in base alla domanda, senza procedura istruttoria e senza quantificazione in via transattiva della somma dovuta per il periodo pregresso (art. 5 della deliberazione n.2671995).
Il P.R. evidenzia che in tutti i giudizi in trattazione i possessori dei beni sono possessori sine titulo atteso che: A) in dodici casi la concessione è inesistente, B) nei rimanenti sette casi la concessione-contratto stipulata fuori termine è da tempo scaduta. Ne discende quindi, ad avviso dell'attore, in entrambe le situazioni il pagamento di un canone calcolato al valore di mercato. Tale conseguenza va estesa anche nei casi in cui all'ordinanza sindacale di assegnazione siano seguiti fuori termine la determinazione dirigenziale di concessione ed il successivo disciplinare.
Secondo l'assunto attoreo, l'ordinanza sindacale (riferita a n. 12 giudizi) non offre elementi utili ai fini della determinazione del canone dovuto per cui è da ritenere giustificata la richiesta del canone valutato a prezzo di mercato, in mancanza di altro parametro di riferimento e nel caso di pagamento di un canone ridotto del 20% va richiesta il pagamento dell'80% del canone di mercato.
Precisa, inoltre, che negli atti di appello già depositati dalla P.R. avverso le pronunce della Sezione giurisdizionale in analoghe fattispecie, nelle ipotesi in cui non è stato pagato alcun canone, è stata chiesta alla Sezione la condanna dei convenuti al risarcimento del danno pari almeno al 20% del canone calcolato al valore di mercato (richiesta estesa a tutti i giudizi tranne i giudizi nn. 74817, 74820, 75269, 75288, 75298), in mancanza di motivi per cui i possessori non debbano pagare alcun canone.
Ha poi riassunto gli aspetti rilevanti delle sentenze emesse dalla Sezione dedotti negli atti di appello già proposti.
A) La Sezione si sarebbe arbitrariamente sostituita all'amministrazione nel determinare autonomamente la destinazione dei beni patrimoniali e il canone da applicare in ciascun caso, mentre le determinazioni dirigenziali sono da ritenere illecite in quanto assunte da soggetti privi di competenza e violative delle deliberazioni n. 5625/1983, 26/1995 e 202/1996.
B) La mancata chiamata in giudizio degli autori delle ordinanze sindacali è giustificata dal fatto che trattandosi di atto provvisorio e precario, ha prodotto i suoi effetti entro i 120 gg dalla sua emanazione e la mancanza dell'atto concessorio definitivo comporta l'obbligo per l'ente di riacquisire il bene e la sua mancata attuazione grava sui dirigenti titolari dell'ufficio competente che hanno posto una condotta omissiva successivamente alla scadenza dei 120 gg.
C) Nelle sentenze emanate si è fatto riferimento all'istituto del silenzio assenso in relazione al quale l'attore ha precisato che nei casi in cui è applicabile la L. n. 80 del 2005, la normativa dell'epoca stabiliva che i casi di silenzio-assenso erano specificatamente indicati in un regolamento governativo emanato con d.p.r 26.4.1992 n. 300, tra i quali non rientrano i casi in esame. Nel secondo caso (dopo il 2005), ha affermato l'impossibilità di applicazione dell'istituto del silenzio-assenso che a suo dire trova applicazione solo nei casi in cui l'Amministrazione, per soddisfare la richiesta del cittadino, deve emettere un provvedimento positivo o negativo. La normativa del silenzio-assenso va esclusa nei casi in cui la soddisfazione della domanda non può essere attuata con la manifestazione di un semplice assenso o di un diniego, ma richiede una attività istruttoria complessa e di carattere discrezionale, ovvero richiede l'espletamento di una gara.
Conclusivamente, le fattispecie perseguite in dodici giudizi rappresentano situazioni in cui un soggetto gode illecitamente e gratuitamente di un bene pubblico e i dirigenti sono chiamati in giudizio in relazione alla loro condotta commissiva/omissiva sia alla riacquisizione del bene sia al pagamento dell'indennità di occupazione e vengono assolti.
Ciò determina, ad avviso dell'accusa, una serie di
conseguenze:
1) un effetto devastante avendo escluso a carico dei dirigenti qualsiasi danno economico a carico del Comune;
2) la Sezione non ha tenuto conto della deliberazione n. 140/15 in cui la Giunta ha riconosciuto il carattere di significativa risorsa pubblica del complesso dei beni facenti parte del patrimonio indisponibile del Comune di Roma; confermato la necessità della procedura di evidenza pubblica per l'assegnazione dei beni; affermato che le funzioni attività o servizi d'interesse pubblico e le attività socialmente utili devono essere effettive e comprovate;
3) le sentenze adottate non hanno escluso la commissione dell'illecito ma riconosciuto che il comportamento imputabile non ha prodotto alcun danno;
4) Non è sufficiente l'ordinanza per l'assegnazione del bene per finalità pubbliche ma è necessario il provvedimento concessorio preceduto dal procedimento previsto ;
5) La Sezione ha disatteso la sentenza n. 485/15 emanata su fattispecie analoga.
Con riferimento agli altri 7 giudizi, in cui all'ordinanza sindacale è seguita una determinazione dirigenziale e, in tre casi, ben due determinazioni dirigenziali, ha ribadito l'illiceità del comportamento dei sottoscrittori delle medesime determinazioni dirigenziali e dei contratti in quanto la prima determinazione è stata emanata oltre i 120 gg e senza aver seguito la complessa procedura prevista dalla normativa vigente. La seconda determinazione è illecita perché emanata a seguito di semplice domanda apparentemente legittimata da una pregressa situazione illecita. In entrambi i casi, se il procedimento non si conclude nel termine previsto il possesso goduto dal richiedente finisce di essere un possesso sanabile e diventa illecito, e ad esso non può seguire alcuna concessione. Alla scadenza del contratto il possesso diventa illecito perché non legittimato da alcun titolo per cui è dovuto il canone pari al 100% del valore di mercato.
Conclusivamente la Procura ha rassegnato le seguenti conclusioni:
1) nelle 11 ipotesi in cui la concessione
non è mai esistita ed i possessori non hanno pagato alcuna somma (giudizi nn. 74811, 74827, 75263, 75266, 75270, 75276, 75281, 75289, 75300, 75301, 75302), ha chiesto la condanna dei soggetti convenuti in giudizio ad un risarcimento pari all'100% del canone dovuto calcolato al valore di mercato. In subordine, condannare i soggetti convenuti ad un risarcimento del danno pari al 20% del canone dovuto calcolato al valore di mercato;
2) in un unico caso (75287), in cui pur non essendo la concessione mai esistita il possessore ha pagato il 20% del canone di mercato, condannare i convenuti ad un risarcimento pari all'80% del canone dovuto al valore di mercato;
3) nei giudizi 75264 e 75299 in cui i possessori dei beni, pur esistendo formalmente una concessione, non hanno mai pagato alcunché, in primis condannare i convenuti, per l'intero periodo del possesso illecito del bene ad un risarcimento pari del danno pari al 100% del canone dovuto calcolato al valore di mercato. In subordine, condannare i soggetti convenuti ad un risarcimento del danno pari al 20% del canone dovuto calcolato al valore di mercato con riferimento al periodo in relazione al quale esiste formalmente una concessione e ad un risarcimento del danno pari al 100% del canone dovuto calcolato al valore di mercato con riguardo al periodo in relazione al quale non esiste una concessione. In estremo subordine, condannare i convenuti ad un risarcimento del danno pari al 20% del canone dovuto calcolato al valore di mercato;
4) nei restanti giudizi nn. 74817, 74820, 75269, 75288, 75298 in cui i possessori dei beni, esistendo una concessione, hanno pagato il 20% del canone dovuto calcolato al valore di mercato, condannare i convenuti ad un risarcimento pari all'80% del canone dovuto calcolato al valore di mercato;
5) Infine, nei casi di rigetto totale o parziale delle domande formulate disporre la compensazione delle spese.
Alla odierna udienza il P.R. ha insistito sulle conclusioni rassegnate nel verbale depositato nella segreteria della sezione in data 5 luglio 2017, con riferimento alle specifiche fattispecie di danno erarialededotte negli atti di citazione riguardanti la gestione dei beni del patrimonio del Comune di Roma, evidenziando che la Sezione in precedenti giudicati, a fronte di condotte illecite addebitabili ai dirigenti comunali, ha escluso la sussistenza di un danno erariale a carico del Comune di Roma. In punto spese, in subordine ha chiesto la compensazione delle spese.
I convenuti hanno eccepito l'inammissibilità, l'irritualità e la tardività delle "note a verbale", depositate e comunicate dalla Segreteria della Sezione, nonché la violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa e dell'intangibilità della domanda attrice, chiedendone, contestualmente, lo stralcio; nel merito hanno insistito per il rigetto della domanda anche sulla scorta dei precedenti giurisprudenziali della sezione riportandosi a tutte le deduzioni, eccezioni e difese sostenute nei rispettivi scritti difensivi; in punto spese gli avv.ti Anna Buttafuoco e Fusillo hanno chiesto la liquidazione dei compensi professionali in base ai parametri di cui ai D.M. n. 140 del 2012 e 155/15 giustificata dall'attività difensionale espletata in supplenza della carente attività istruttoria dell'organo requirente.
La causa è stata posta in decisione.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente il Collegio deve affrontare la questione riguardante l'ammissibilità delle "note a verbale" depositate dall'attore nei giudizi in trattazione nell'odierna udienza ed alle quali si sono opposti le difese dei convenuti in quanto lesive del diritto di difesa, del principio del contraddittorio e del principio della domanda contenendo nuove conclusioni rispetto alla domanda originaria.
Il Collegio reputa inammissibile, intempestivo e tardivo l'atto difensivo della procura, sotto vari profili.
Come è noto, la struttura del processo contabile improntato alla concentrazione delle fasi processuali in un'unica udienza comporta la trattazione "orale" delle questioni poste dalle parti nei rispettivi atti giuridici depositati entro i termini processuali previsti dal codice di rito, fatta salva la possibilità di replica agli interventi delle parti avverse, in linea con i precetti della Carta Costituzionale.
La discussione "orale" verte sulle difese già proposte senza che sia consentito alle parti e al P.M. sottoporre alla cognizione del giudice fatti o motivi nuovi e diversi da quelli trattati (Corte Cost. 29.10.1993 n.403).
In dottrina è stato osservato che la questione deve essere risolta confrontandola con il nuovo parametro costituzionale della parità delle parti e che la stessa Corte Europea dei Diritti umani ha affermato il principio che "l'eventuale impossibilità della parte convenuta di replicare e discutere tutte le osservazioni presentate dal P.M. quand'anche in posizione di indipendenza, al fine di influire sulla decisione del giudice, non soddisfa l'esigenza di parità delle parti".
Tali considerazioni di carattere generale inducono ad un approfondimento della compatibilità delle cd "note a verbale" depositate dall'accusa prima dell'udienza di trattazione, con i principi dettati dall'art. 111 Cost.
In disparte la possibilità dell'attore di "emendare" la domanda nel rispetto delle prerogative ad esso conferite al fine di assicurare il se il come e in che misura chiedere la tutela giurisdizionale del diritto disponibile che si assume leso e abbisognevole di tutela, dovendo dall'altra il giudice pronunciarsi non oltre i limiti di essa (art. 112 c.p.c.), l'atto depositato dalla P.R. presenta profili non del tutto coerenti con le domande poste a fondamento dei rispettivi giudizi.
Difatti- nonostante l'affermazione del P.M. d'udienza nel considerare l'atto illustrativo delle domande riferite ai molteplici giudizi in trattazione, anticipandone le "conclusioni" rassegnate nella discussione "orale", il Collegio non può non rilevare l'irritualità e l'atipicità dello stesso, dovendo le parti illustrare oralmente le conclusioni già formulate negli scritti depositati (art. art. 86 comma 2 lett.e e art.91 comma 7 cd,. C. D.Lgs. n. 174 del 2016).
Se- come invece traspare dall'attento esame del contenuto dell'atto -sopra ampiamente riportato- dette "note" si appalesano modificative e/o integrative delle domande originarie, la soluzione adottata dalla procura non è coerente con le regole processuali poste a garanzia del principio di difesa e di parità processuale tra le parti avendo omesso di instaurare un regolare contraddittorio anche sulle "nuove" questioni introdotte dalla stessa.
Il Collegio reputa altresì inammissibile, oltre che irrituale e ininfluente - ai fini del decidere - l'indicazione nelle riportate "note" delle ragioni poste a fondamento degli atti di appello avverso recenti pronunce di questa Sezione in materia di concessioni di beni patrimoniali del Comune di Roma (cd "affittopoli"), esulando dalle proprie competenze la cognizione di tali ragioni riservate esclusivamente al giudice di appello.
Anche sotto tale aspetto non può non rilevarsi un "vulnus" alle prerogative dei convenuti avendo l'accusa "anticipato" in modo scorretto e inusuale le tesi accusatorie che saranno affrontate nei giudizi di impugnazione delle sentenze della Sezione nei quali non risultano essere ancora costituiti gli odierni convenuti.
Per le considerazioni e ragioni sopra esposte, la Sezione dichiara inammissibile, irrituale e, quindi, irricevibile la cd. "nota a verbale" depositata tardivamente dalla P.R.
2. Con riferimento alle plurime questioni preliminari e pregiudiziali formulate dalle parti convenute il Collegio ribadisce la propria posizione già espressa nelle precedenti sentenze stante la non immediata risolvibilità delle stesse anche per la fondata previsione di necessità istruttorie sui relativi punti, e considerato anche il primario interesse della parte stessa ad ottenere una pronuncia di merito favorevole, e pertanto ha ritenuto di affrontare, per economia processuale, la questione di merito dirimente. Tanto è consentito in applicazione della giurisprudenza della Cassazione che, con sent. n. 17/03/2015 n. 5264, ha ribadito il suo precedente orientamento secondo cui una domanda può essere respinta sulla base di una questione assorbente, pur se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare tutte le altre, essendo ciò suggerito dal principio di economia processuale e da esigenze di celerità anche costituzionalmente protette dall'art. 111 Cost. (v. Cass. 16/05/2006 n. 11356 ma anche Cass. 27/12/2013 n. 28663). In particolare la Cass. (sent. 28/05/2014 n. 12002), ha affermato che "il principio della ragione più liquida, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell'impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico-sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell'ordine delle questioni da trattare, di cui all'art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall'art. 111 Cost., con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, - anche se logicamente subordinata - senza che sia necessario esaminare previamente le altre".
Un'ultima notazione a sostegno del proprio convincimento può ricavarsi dallo stesso "Appunto" generale depositato dalla P.R., integrativo dei singoli atti di citazione, espressione dello sforzo interpretativo del requirente di dare una veste "unitaria" alle proteiformi casistiche raggruppandole in varie tipologie nelle quali collocare la singola fattispecie dannosa perseguita, evidenziandone i tratti comuni, ma sostanzialmente connotate da tratti differenziati tra loro, con riguardo alla natura al regime e all'uso dei singoli cespiti, ai soggetti destinatari degli atti concessivi, alle condotte dei soggetti responsabili, all'entità dei danni perseguiti per ciascuna fattispecie.
Tutto ciò giustifica, quindi, la trattazione disgiunta delle fattispecie dannose perseguite dalla Procura ritenendosi insussistenti, nel caso di specie, asserite ragioni di economia processuale, e di connessione (oggettiva e soggettiva), per disporne la riunione.
Infine, va pure considerata anche l'estrema difficoltà e/o ingestibilità di un unico giudizio comprendente oltre trecento casistiche, la cui riunione non garantisce una concreta semplificazione dell'attività difensiva.
Il P.R., nel presente giudizio, ha chiesto la condanna delle parti citate in epigrafe che, nelle rispettive qualità di dirigenti del Comune di Roma, egli ha ritenuto responsabili del danno, a suo avviso derivante dalla differenza tra il prezzo agevolato della concessione (20% del prezzo di mercato) del bene immobile descritto in fatto e detto prezzo di mercato in quanto, allo scadere dei 120 giorni previsti dall'ordinanza provvisoria per l'emanazione del provvedimento concessorio definitivo, o, comunque, alla scadenza della concessione, si sarebbe dovuto procedere alla riacquisizione del bene e provvedere alla sua locazione a prezzo corrente di mercato o pretendere tale importo dall'assegnatario, ma ciò non è stato fatto.
L'ipotesi oggi all'esame, pertanto, non riguarda casi di morosità per canoni di locazione di appartamenti o altri beni del patrimonio disponibile gestibili secondo le regole del mercato (questione che, più propriamente, potrebbe inquadrarsi nel fenomeno della c.d. "affittopoli") ma riguarda, unicamente, la tesi, che sostiene il P.R., secondo cui il canone concessorio di beni demaniali o del patrimonio indisponibile, avrebbe dovuto essere incrementato fino al prezzo di mercato in caso di mancata formalizzazione dei provvedimenti concessori, o di tardività degli stessi, o di mancato loro rinnovo, sia pure assentiti con provvedimenti provvisori.
3. Ciò posto, si osserva che la tesi del P.R. non convince.
L'occupazione dell'immobile da parte del Centro studi per la storia dell'architettura risalente alla deliberazione del Governatore n. 3825 del 26.11.1940 è stata disposta con successivi atti concessori, di cui l'ultimo risalente al 1983 con scadenza in data 1.1.1988, emessi ai sensi delle deliberazioni regolamentari comunali n. 5625/1983, n. 26/1995 e n. 202/1996, che prevedevano la assegnazione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili per le utilità sociali ivi previste (anche culturali) con pagamento di canone ridotto al 20% del prezzo di mercato.
Nulla eccepisce parte attrice su tale ordinanza i cui firmatari e proponenti non sono stati citati o, comunque, sul fatto che i beni e i destinatari di essi non fossero stati, originariamente, correttamente individuati a fini concessori per le finalità socio-culturali.
Non viene contestato, pertanto, che detti beni potessero essere dati in concessione al prezzo ridotto indicato e ai destinatari individuati per le finalità da essi perseguite, ma il P.R. ritiene che l'assegnazione a dette condizioni potesse valere solo fino allo scadere dell'ultima concessione, non rinnovata ovvero 1.1.1988), avendo il Centro goduto sine titulo il bene per anni 28 e mesi 8 senza corrispondere alcun canone.
Ritiene parte attrice che, dopo detti termini, il bene avrebbe dovuto essere riacquisito e locato, a mezzo gara, a prezzi di mercato, cosa che non è avvenuta ed il danno consisterebbe in tale mancata entrata differenziale (maturato nel periodo dal 1.4.2006-31.8.2016).
Deve al riguardo osservarsi che la particolarità dei locali individuati, destinati, comunque, a usi di pubblica utilità sociali e culturali, non li rendeva utilizzabili e sfruttabili alla stregua di locali da affittare e, quindi, tale peculiarità rafforzava la natura di beni non fruibili sul libero mercato e rientranti tra quelli per i quali era prevista, dai regolamenti comunali 5625/1983, 26/1995 e 202/1996, una utilizzazione a prezzo ridotto e agevolato per finalità sociali e culturali.
In particolare, le difese hanno concordemente affermato che trattasi di due locali di servizio non comunicanti tra loro, di cui uno posto a piano terra e un secondo a primo piano, siti in via P. n. 54 nel più ampio fabbricato di proprietà del demanio dello stato, classificato come bene storico monumentale "Casa dei Crescenzi" di competenza della Soprintendenza comunale sin dal 1990. L'accesso ai locali è consentito esclusivamente dall'immobile del demanio dello stato. I locali sono stati destinati dall'Amministrazione a "spazio sociale" ed assegnati al Centro studi per la storia dell'Architettura, ente morale dal 1939, ed il rapporto concessorio è quindi regolato dai regolamenti comunali che prevedono l'assegnazione ad un canone ridotto nella misura del 20% di quello di mercato, secondo la stima effettuata autoritativamente dall'Amministrazione concedente (Regolamento approvato con delibera C. C. n.5625 del 1983). L'eventuale inefficacia dell'O.S. e/o la scadenza dell'atto di concessione non legittima l'Ente ad applicare il canone di mercato stante la destinazione vincolata dei beni destinati a spazio sociale. Le parti hanno inoltre escluso il danno economico avendo il Centro regolarmente pagato i canoni dal 2004 al 2015, mentre le richieste di restituzione dei locali sono state avversate dalla Sovrintendenza e dal MIBACT, stante lo stretto legame funzionale tra i locali e la rimanente parte dell'immobile di proprietà dello Stato, utilizzato dal Centro. In disparte ogni altra considerazione, pertanto, la scadenza del termine, oltre il quale è stata adottata la concessione definitiva, pure scaduta e non rinnovata per le ragioni sopra esposte, non cambiava la natura del bene e la sua utilizzabilità alle stesse condizioni agevolate attuate con il provvedimento originario con conseguente impossibilità di praticare, per esso, un prezzo di mercato.
D'altro canto, come è stato rilevato, sarebbe singolare che l'inosservanza, da parte del Comune, del rispetto del termine per la conclusione o per il rinnovo del procedimento concessorio, si possa risolvere in un pregiudizio per la parte che lo subisce e che dal silenzio dell'amministrazione possa derivare la risoluzione del rapporto in quanto ciò contrasterebbe con l'art. 20 della L. n. 241 del 1990, di rango superiore rispetto ai regolamenti, che qualifica il silenzio dell'Amministrazione come silenzio assenso.
Non si esclude che una diversa e più accorta gestione del patrimonio avrebbe consigliato modalità di regolamentazione più ponderate e più attente al pubblico interesse, ma tanto non è oggetto del presente giudizio, né, nel caso, riguarda le parti convenute che non possono, essere chiamate a rispondere per la diversa causa petendi più volte indicata.
Non si ravvisa, pertanto, l'esistenza del danno e manca, quindi, l'elemento presupposto per poter riconoscere responsabilità delle parti chiamate nella presente fattispecie ed esse devono, conseguentemente, mandarsi assolte dalla domanda attrice.
Né l'esistenza di precedente sentenza, peraltro appellata, su fattispecie analoga, limita questo Collegio ad una diversa valutazione stante la non vincolatività della giurisprudenza.
4.Lamentano talune parti le modalità con cui il P.R. ha sviluppato l'azione, instaurando, nei confronti di almeno alcune di esse, un numero di giudizi che viene ritenuto persecutorio, e concretizzante abuso di ufficio e, pertanto, chiedono la applicazione dell'art. 96, 3 comma c.p.c. per la responsabilità aggravata.
Al riguardo si osserva che, di per sé, la scelta attorea di non operare ab origine con un unico atto di citazione o con pochi atti cumulativi, ha comportato l'effetto positivo di una maggiore attenzione su ogni singolo caso e ha reso più gestibile la trattazione dei giudizi che, comunque, si riferiscono a chiamati o gruppi di chiamati non sempre identici. Ciò rende evidente la mancanza, comunque, dell'intento persecutorio adombrato dalle parti e dimostra l'inesistenza dell'elemento soggettivo (dolo o colpa grave) di parte attrice che la giurisprudenza ha ritenuto necessario per il concretizzarsi della fattispecie.
Infatti, per un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma e per evitare che il Giudice possa applicare ad libitum la predetta sanzione in caso di soccombenza, la disposizione non può che essere applicata a quelle condotte che siano imputabili soggettivamente alla parte a titolo di dolo o colpa grave, ovvero ad una condotta negligente che abbia determinato un allungamento dei termini del processo (cfr Tribunale di Terni, 17 maggio 2010 e anche Tribunale di Varese, 27 maggio 2010).
Ove si prescindesse dai predetti requisiti, dal solo agire o resistere in giudizio potrebbe derivare la giustificazione della condanna (cfr. Tribunale Verona 28 febbraio 2014) in contrasto anche con l'art. 24 della Costituzione.
D'altro canto, la mancanza di abuso e dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave può desumersi sia dal fatto che l'esistenza di molti casi da perseguire era un fatto obiettivo, sia dall'esistenza di una precedente sentenza che ha innescato una serie di ulteriori procedimenti. Né si può ritenere che l'esistenza di più citazioni sia più vessatoria di un'unica citazione, ove, cumulativamente, la somma richiesta sia la stessa del totale delle singole considerata anche l'estrema difficoltà e/o ingestibilità di un unico giudizio comprendente oltre trecento casistiche.
Da tanto consegue che, ferma restando la possibilità dei singoli Collegi di valutare le modalità di trattazione, anche allo stato non si ritiene utile, nel caso, la riunione dubitandosi fortemente che essa si risolverebbe in una concreta semplificazione dell'attività difensiva.
5. In punto spese, la procura regionale ha chiesto la compensazione delle spese, dissentendo dal giudicato di questa sezione che nelle fattispecie analoghe ha condannato il Comune al pagamento delle spese processuali sostenendo che la novità delle questioni e la necessità di agire a carico della procura a causa delle anomalie riscontrate consistenti nel mancato adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto e nella quantità di possessori morosi, costituirebbero motivi idonei a giustificare la compensazione delle spese, da applicarsi, nel caso di rigetto degli odierni giudizi.
Talune parti costituite hanno invece richiesto la liquidazione delle spese processuali sulla base dei tariffari vigenti- sia pure in misura ridotta- attesa l'attività istruttoria espletata, per ciascun giudizio, in supplenza dell'organo requirente.
Il Collegio - pur tenendo conto delle motivazioni addotte dalle parti- ritiene tuttavia dissentire dalla posizione sostenuta da ciascuna di esse e ribadire la scelta già fatta nei precedenti giudizi in ragione del fatto che le memorie costitutive hanno un contenuto perfettamente sovrapponibile e identico con quanto rappresentato negli scritti difensivi prodotti negli giudizi già trattati a dimostrazione della serialità e ripetitività degli argomenti trattati, che comporta, ad avviso del collegio, la riduzione significativa della quantificazione delle spese, anche rispetto ai minimi stabiliti dalle tariffe vigenti, così come va pure rigettata la richiesta di "compensazione" formulata dalla procura nelle "note" a verbale, non ravvisando i motivi per l' applicazione della stessa.
In definitiva si ritiene equo confermare il compenso professionale per l'attività svolta nel presente giudizio alla stregua del quantum liquidato nei giudizi successivi a quelli definiti con le sentenze 76 e 78 del 2017.
Le spese legali si liquidano quindi nella misura di Euro. 200,00 (duecento/00) a favore di ciascuna parte convenuta.
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, ogni contraria istanza ed eccezione reiette, definitivamente pronunziando,
DICHIARA:
l'inammissibilità delle note a verbale prodotte in udienza nei sensi e limiti di cui in motivazione;
RIGETTA:
- la domanda del P.R. e, per l'effetto, assolve le parti convenute in epigrafe dalla domanda attrice;
- l'istanza della parte convenuta per l'applicazione dell'art. 96 3 comma c.p.c..
Le spese legali si liquidano nella misura di Euro.200,00 a favore di ciascuna parte convenuta, oltre spese generali, IVA e CAP.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 6 luglio 2017.
Depositata in Cancelleria 3 agosto 2017.