Reiterazione vincoli
Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 29/02/2024) 02/05/2024, n. 11767, sulla reiterazione dei vincoli espropriativi
MASSIMA
La reiterazione dei vincoli scaduti preordinati all'esproprio o sostanzialmente espropriativi, oltre il limite temporale consentito, è riconducibile a un'attività legittima della P.A., la quale è tenuta a svolgere una specifica ed esaustiva indagine sulle aree incise, tenendo conto delle loro caratteristiche in concreto, al fine di determinare nell'atto medesimo, quantomeno in via presuntiva, e poi di liquidare un indennizzo in misura non simbolica, che ripaghi il proprietario della diminuzione del valore di mercato o delle possibilità di utilizzazione dell'area rispetto agli usi o alle destinazioni ai quali essa era concretamente, o anche solo potenzialmente, vocata; a tali accertamenti provvede il giudice del merito nei casi in cui la liquidazione sia omessa dalla P.A. o sorgano contestazioni sulla misura dell'indennizzo liquidato in favore del proprietario, ma al privato non si richiede di fornire la prova di aver subito un danno ingiusto, competendogli un indennizzo per il sacrificio sofferto in conseguenza di un atto lecito della P.A. e non il risarcimento del danno conseguente ad un atto illecito.
ORDINANZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. VALITUTTI Antonio - Presidente
Dott. PARISE Clotilde - Consigliere
Dott. CAIAZZO Rosario - Consigliere
Dott. FIDANZIA Andrea - Consigliere
Dott. D'ORAZIO Luigi - Consigliere Rel.
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso n. 10874/2018 r.g. proposto da:
A.A. e B.B., rappresentate e difese, giusta procura speciale apposta a margine del ricorso, dagli Avvocati Rosario Valore e Giovanni D'Urso, con cui elettivamente domicilia in Roma, presso la Cancelleria della Corte di cassazione.
- ricorrenti -
contro
Comune di Trecastagni, in persona del legale rappresentante pro tempore,
- intimato -
avverso la sentenza della Corte di appello di Catania, depositata in data 3 ottobre 2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/2/2024 dal Consigliere dott. Luigi D'Orazio;
Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione notificato in data 18 gennaio 2005, A.A. e B.B. deducevano di essere comproprietarie di un terreno sito nel Comune di T, ubicato in pieno centro abitato e distinto in catasto al foglio (Omissis), particelle (Omissis).
Evidenziavano che tale terreno era stato assoggettato a vincoli sostanzialmente espropriativi: le particelle nn. (Omissis), ricadenti in zona verde pubblico e sede stradale; le particelle (Omissis) in zona C1S (alloggi di edilizia residenziale agevolata) e la particella n. (Omissis), parte in zona C1S e parte in zona F4 destinata a verde pubblico.
Il vincolo sostanzialmente espropriativo iniziale era costituito dal piano di fabbricazione dell'8 ottobre 1979, seguito poi dal piano regolatore generale approvato in data 14 dicembre 1989, quest'ultimo ancora vigente alla data del 19 novembre 2004.
Pertanto, per oltre 25 anni il Comune aveva vincolato il terreno senza però mai procedere alla sua espropriazione, con la conseguenza che il terreno di fatto non era alienabile ma, non essendo stato espropriato, i proprietari non avrebbero mai potuto percepire neppure l'indennità di esproprio.
Alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999, le attrici chiedevano la condanna del Comune al risarcimento dei danni, stante il carattere patologico della "indefinita" reiterazione del vincolo espropriativo.
2. Il Comune deduceva, tra l'altro, che la natura dei vincoli non consentiva di inserirli tra quelli per i quali era previsto l'indennizzo, per eccesso del limite temporale, trattandosi di vincoli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata.
3. Il Tribunale di Catania, sezione distaccata di Mascalucia, accoglieva la domanda. In particolare, rilevava che erano fuori dall'area dell'indennizzo, anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999: a) i vincoli incidenti con carattere di generalità ed obiettività su intere categorie di beni, ivi compresi i vincoli ambientali e paesistici; b) i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica; c) i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato. In particolare, nel caso di specie ci si trovava dinanzi alla reiterazione di un vincolo sostanzialmente espropriativo, in quanto le "tipizzazioni a verde pubblico" costituivano vincolo meramente conformativo solo qualora lo stesso non risultasse idoneo a privare tale area di una qualunque utilitas, anche sotto il profilo economico.
Ciò valeva anche per la porzione di fondo non vincolata a verde pubblico (mq. 1190). Dalla CTU espletata emergeva che la particella n. (Omissis), come pure parte della n. (Omissis) (per metri quadri 340), ricadevano in ZTO C1 di completamento delle previsioni del precedente PRG, mentre la restante superficie ricadeva in ZTO F3 verde di quartiere e parchi urbani suburbani, ed il valore venale di tali particelle era stato quantificato in complessivi Euro 134.270,00 (Euro 102.400,00 + Euro 31.870,00).
4. Avverso tale sentenza proponeva appello il Comune lamentando, per quel che ancora qui rileva, quanto alle particelle nn. (Omissis), che non vi era stata alcuna reiterazione di vincoli di natura espropriativa, con conseguente disconoscimento dell'indennizzo, come emergeva dal certificato di destinazione urbanistica del 19 novembre 2004 e dal piano di fabbricazione vigente dall'8 ottobre 1979 al 13 dicembre 1989, ricadendo in zona agricola, mentre nel PRG approvato il 14 dicembre 1989 venivano ricomprese in ZTO C1, per la costruzione di alloggi di edilizia residenziale agevolata, con un indice di edificabilità pari a 2,00 mc/mq (ricadendo la parte residua della particella 524 in zona F4 - verde pubblico -). Su tali particelle non gravavano, quindi, vincoli espropriativi, ma solo meramente confermativi, conseguenti alla scelta di programmazione urbanistica di zonizzazione, e non già di localizzazione. Quanto, poi, alle particelle n. (Omissis), esse nel piano di fabbricazione vigente dall'8 ottobre 1979 ricadevano in zona F4 (verde pubblico) e nel PRG approvato in data 14 dicembre 1989 in zona F4 (verde pubblico) ed in minor parte in sede stradale di previsione, con la conseguenza che, ove si fosse ipotizzata una reiterazione dei vincoli, essa avrebbe riguardato solo le particelle nn. (Omissis).
Inoltre, quanto all'indennizzo, il Comune deduceva che le attrici avevano liberamente proceduto all'alienazione della particella (Omissis); lo stesso avrebbero potuto fare per le restanti particelle, sulle quali non gravavano vincoli espropriativi, ma solo conformativi, essendo peraltro del tutto carente la prova del danno. Il tribunale peraltro sarebbe stato indotto in errore "da una CTU viziata ab origine dallo stesso mandato conferito".
5. La Corte d'appello di Catania, in accoglimento dell'appello del Comune, rigettava la domanda delle attrici.
In particolare, per quel che ancora qui rileva, con riferimento alle particelle nn. (Omissis), di complessivi mq 1190, trattavasi di vincoli esclusivamente conformativi, con esclusione del diritto all'indennizzo. Tali particelle, nel previgente piano di fabbricazione del 1979 non erano soggette a vincolo alcuno, ricadendo in zona agricola, mentre secondo le disposizioni del PRG approvato il 14 dicembre 1989, rientravano in zona C1 S "legge 167", destinata ad alloggi di edilizia residenziale agevolata, con indice di edificabilità, pari a 2 mc./mq., e la parte residua della particella 524 in zona F4, destinata al verde pubblico. Nella specie, la Corte di cassazione, superando un precedente indirizzo fondato sulla natura espropriativa del vincolo, in relazione ai Piani di edilizia economica e popolare (PEEP) (Cass., 27 febbraio 1989, n. 1067), aveva affermato che essi costituiscono dei veri e propri piani di zona e, quindi, piani urbanistici attuativi o di terzo livello, equivalenti ai piani particolareggiati o di lottizzazione (Cass., Sez. U., 18 novembre 1997, n. 11433). Ciò in ragione del carattere "programmatorio e conformativo" del piano, che è stato successivamente esteso al Piano per gli insediamenti produttivi (PIP).
Si trattava, allora, di un vincolo di natura conformativa, incidente su intere categorie di beni, ed imprimendo una destinazione realizzabile anche attraverso l'iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, in conformità con gli standard urbanistici di cui al DM n. 1444/68, aree "destinate a verde pubblico, parcheggi e strade".
Quanto, poi, alle particelle nn. (Omissis) (della complessiva estensione di metri quadri 3187), risultava dalla documentazione acquisita e dai certificati di destinazione urbanistica che le stesse, ricadenti in zona F4-verde pubblico (la particella n. (Omissis) per la maggior parte in zona F4 ed in minor parte in sede stradale di previsione di PRG), avevano avuto la destinazione sia nel piano di fabbricazione del 1979, sia nel PRG approvato in data 14 dicembre 1989. In tal caso, la destinazione consentiva la costruzione di edifici ed attrezzature pubblici, essendo l'attività di trasformazione rimessa inderogabilmente all'iniziativa pubblica.
Era, dunque, corretto l'iter logico-giuridico sotteso alla statuizione del tribunale, che aveva ravvisato la reiterazione di un vincolo sostanzialmente espropriativo, con esclusivo riferimento alle particelle 363 e 740, stante la loro destinazione a verde pubblico attrezzato, essendo tale vincolo preclusivo ai privati di tutte le forme di trasformazione del suolo.
Tuttavia, in accoglimento del quarto motivo di appello del Comune, la Corte d'appello di Catania reputava che le parti attrici non avessero adempiuto all'onere della prova su di esse gravante. L'indennità era, dunque, dovuta solo in presenza di "oggettivi pregiudizi derivanti dalla reiterazione del vincolo", gravando l'onere della prova sul proprietario del bene, "dovendosi evitare la possibilità di ingiustificati arricchimenti" e valorizzandosi il principio generale della "vicinanza dei mezzi di prova". Le attrici avevano chiesto la corresponsione di un indennizzo commisurato alla diminuzione del reddito del fondo per anno, intendendo quindi fare riferimento "alla posta di danno costituita dalla diminuzione del prezzo di mercato del fondo di loro proprietà". Di tale pretesa diminuzione del reddito non avevano però offerto alcuna prova. Inoltre, era emersa dagli atti di causa e, in particolare, dalla relazione del CTU, una circostanza che deponeva in senso contrario all'assunto delle attrici circa la sussistenza di un pregiudizio. Era, infatti, emerso che le stesse, con atto rogato nel luglio 2007, avevano venduto la particella 524 (ricadente parte in zona C1 legge 167 e parte in zona F4-verde pubblico) ad una società cooperativa edilizia e, dunque, "per gli scopi propri della destinazione urbanistica impressa dalla pianificazione comunale". Era dunque mancata la prova del pregiudizio sofferto, anche in astratto sotto uno dei vari profili rilevanti: mancato uso normale del bene, riduzione dell'utilizzazione, diminuzione del prezzo di mercato, locativo o di scambio.
6. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione le attrici, affidato a tre motivi, depositando anche memoria scritta.
7. Il Comune di Trecastagni non ha svolto difese.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di impugnazione le ricorrenti deducono la "violazione e falsa applicazione dell'art. 2 legge 19/11/68 n. 1187 e successive modifiche e integrazioni".
In particolare, rilevano che il giudice d'appello non ha tenuto conto del lunghissimo tempo (circa 25 anni) in cui il terreno è stato oggetto di vincoli che ne hanno pregiudicato, totalmente o parzialmente, la capacità edificatoria, senza che il Comune avesse pagato alcun indennizzo. Tra l'altro, nell'ipotesi in cui il termine sia sato indicato, alla sua scadenza, ovvero decorso inutilmente il termine quinquennale dei vincoli espropriativi, le aree non tornano libere, ma sono soggette all'applicazione temporanea della disciplina delle zone bianche, ai sensi dell'art. 4 legge n. 10 del 1977, con evidente riduzione della edificabilità dei terreni.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Il in realtà, il giudice d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali, con cui si opera la distinzione tra potere conformativo della pubblica amministrazione (all'interno del quale rientrano i piani di edilizia economica e popolare), che non dà luogo ad alcun indennizzo, e vincoli preordinati all'espropriazione, per i quali è previsto invece l'indennizzo.
Pur applicandosi la normativa anteriore al d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (gli atti di rinnovo dei vincoli sono anteriori al 30 giugno 2003), restano validi i principi giurisprudenziali in relazione agli effetti dei vincoli preordinati all'espropriazione, in caso di reiterazione degli stessi.
Gli effetti dell'apposizione del vincolo espropriativo sono assai rilevanti, determinando l'immediata imposizione sull'immobile di un vincolo di inedificabilità assoluta, così da impedire l'eventuale modifica dello stato dei luoghi prima del compimento dell'espropriazione.
Il vincolo, prima del d.P.R. n. 327 del 2001, era talora decennale (Cass., 28 aprile 2022, n. 13390), mentre ora l'art. 9 dello stesso d.P.R. stabilisce al comma 2 che "il vincolo preordinato all'esproprio ha la durata di 5 anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera".
L'art. 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187, prevedeva, infatti, che "le indicazioni del piano regolatore generale, nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione o a vincoli che comportino la inedificabilità perdono efficacia qualora entro 5 anni dalla data di approvazione del piano regolatore non siano stati approvati i relativi piani particolareggiati o autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati".
Tale disposizione è stata abrogata dall'art. 58 del d.P.R. n. 327 del 2001, che ne ha trasfuso parte del contenuto nell'art. 9 dello stesso d.P.R.
1.3. Sulla materia sono intervenute tre pronunce della Corte costituzionale. La prima è la sentenza n. 55 del 1968, per la quale la mancata previsione di limiti temporali di durata del vincolo faceva sì che la situazione del bene ad esso sottoposto, comportando la privazione (di fatto) delle ordinarie fondamentali facoltà di godimento del bene, configurava un'espropriazione sostanziale, senza però che a questa corrispondesse alcun indennizzo. Pertanto, se era tollerabile il sacrificio temporalmente (e ragionevolmente) limitato, intollerabile e dunque illegittimo era invece il vincolo protratto indefinitamente, tale da equivalere ad una sostanziale espropriazione e, come tale, suscettibile di indennizzo.
Si è dichiarata dunque l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, nn. 2,3,4, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (legge urbanistica), e dell'art. 40 della stessa legge, nella parte in cui non prevedono un indennizzo per l'imposizione di limitazioni operanti immediatamente e a tempo indeterminato nei confronti dei diritti reali, quando le limitazioni abbiano contenuto espropriativo.
L'art. 11 della legge n. 1150 del 1942 stabiliva, infatti, che "il piano regolatore generale ha vigore a tempo indeterminato"; sicché, una volta intervenuta la pronuncia della Corte costituzionale n. 55 del 1968, il legislatore ha fissato la durata massima di cinque anni dei vincoli preordinati all'esproprio, con l'art. 2 della legge n. 1187 del 19 novembre 1968, senza però escludere la possibilità di prorogare e reiterare il vincolo scaduto.
Successivamente, è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999, la quale ha indicato i casi cui non vi è diritto all'indennizzo. In particolare si è ritenuto che "restano al di fuori dell'ambito dell'indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni - ivi compresi i vincoli ambientali - paesistici -, i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile".
È stata dunque dichiarata l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, nn. 2, 3 e 4, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (legge urbanistica) e 2, primo comma, della legge 19 novembre 1968, n. 1187 (modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), nella parte in cui consentivano all'amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all'espropriazione o che comportassero l'inedificabilità, senza la previsione di indennizzo secondo modalità legislativamente previste.
Si è precisato che la reiterazione in via amministrativa di vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo), ovvero la proroga in via legislativa di una particolare durata dei vincoli stessi prevista in alcune regioni a statuto speciale, non devono essere considerati fenomeni diversi e inammissibili dal punto di vista costituzionale; tuttavia assumerebbero certamente carattere patologico quando vi fosse una indefinita reiterazione o una proroga sine die all'infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetono aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale fosse indeterminato, cioè non fosse certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza.
La terza pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 270 del 2020) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 9 comma 12, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, secondo periodo, limitatamente alla parte in cui prevede che i vincoli preordinati all'espropriazione per la realizzazione, esclusivamente ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi previsti dal piano dei servizi decadono qualora, entro 5 anni decorrenti dall'entrata in vigore del piano stesso, l'intervento cui sono preordinati non sia inserito, a cura dell'ente competente alla sua realizzazione, nel programma triennale delle opere pubbliche e relativo aggiornamento.
1.4. Quanto ai vincoli di natura conformativa, costituisce principio consolidato di legittimità quello per cui il carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, per natura e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare tale carattere ove gli stessi vincoli siano inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, perlopiù spaziale, con un'opera pubblica (Cass., 22 dicembre 2022, n. 37574; Cass., sez. 1, 19 gennaio 2020, n. 207; Cass. 10 febbraio 2017, n. 3609).
Hanno, quindi, natura conformativa i vincoli inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale, o di parte di esso, in grado di incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle caratteristiche estrinseche o intrinseche o del rapporto perlopiù spaziale con un'opera pubblica. In tal caso, il vincolo assume carattere conformativo ed influisce sulla determinazione del valore dell'area espropriata (Cass., sez. 1, 14 marzo 2023, n. 7393).
Al contrario, il vincolo, se incide su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione (Cons. Stato, sez. IV, 30 luglio 2012, n. 4321) e da esso deve prescindersi nella stima dell'area (Cass., sez. 1, n. 7393 del 2023, cit.). Si tratta di vincoli incidenti su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui localizzazione non può coesistere con la proprietà privata.
Solo i vincoli preordinati all'espropriazione danno diritto all'indennità, anche nel caso di loro reiterazione - nel caso di specie non v'è stata espropriazione - (Cass., sez. 1, 21 dicembre 2022, n. 37414).
2. Con specifico riguardo ai Piani di edilizia economica e popolare (P.E.E.P.), caratterizzanti le particelle nn. (Omissis), in discussione con il primo motivo di ricorso, deve dunque essere eseguito l'orientamento giurisprudenziale di legittimità per cui, con riferimento alle varianti che introducono una previsione urbanistica intesa alla edificabilità di una vasta area del territorio, sia per venire incontro alle esigenze abitative della popolazione, sia per promuovere lo sviluppo dell'attività produttiva, i P.E.E.P. costituiscono, come prevede l'art. 2 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, dei veri e propri piani di zona e, quindi, piani urbanistici attuativi o di terzo livello, equivalenti ai piani particolareggiati o di lottizzazione ex art. 28 legge 17 agosto 1942, n. 1150, come modificato dall'art. 8 della legge 7 agosto 1967, n. 765 (Cass., 10 febbraio 2017, n. 3609).
Non può dunque esservi contrasto tra il PEEP ed il PRG o il PDF (piano di fabbricazione).
Infatti, in base all'art. 3 della legge 18 aprile 1962 n. 167, che ha previsto i piani di edilizia economica e popolare, gli stessi debbono di regola trovare insediamento nelle zone previste come zone di espansione dell'aggregato urbano, ancorché non ancora edificate. Qualora, poi, la zona oggetto del piano non fosse già prevista come zona di espansione destinata all'edilizia residenziale, come nel caso che essa avesse destinazione agricola nel piano regolatore generale, l'approvazione del PEEP costituisce un provvedimento con un duplice effetto: da un lato approvazione di variante allo strumento urbanistico fondamentale di secondo livello (piano regolatore generale o piano di fabbricazione); dall'altro approvazione di piano di zona attuativo di terzo livello.
Il PEEP, allora, rientra in un disegno normativo volto a consentire che l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare sia inquadrato in uno strumento urbanistico più ampio, per cui non può essere in contrasto con un precedente piano urbanistico generale, di cui costituisce pur sempre l'attuazione nella versione originaria o in quella modificata dal PEEP che del PRG ha effetto di variante.
Ciò dunque evidenzia il carattere "programmatorio e conformativo" del piano suddetto (Cass., 17 settembre 2001, n. 11621) che è stato successivamente esteso al Piano per gli insediamenti produttivi (PIP), per evidente analogia dei presupposti, la cui natura conformativa è stata ribadita in numerose pronunce (Cass., 24 aprile 2007, n. 9891; Cass., 6 settembre 2006, n. 19128; Cass., 24 marzo 2004, n. 5874; per Cass., 9 ottobre 2017, n. 23572, hanno natura conformativa anche i vincoli di destinazione a spazi pubblici attrezzati a parco per il giuoco e lo sport).
3. Trattasi, dunque, come affermato dal giudice d'appello, di Piani di edilizia economica e popolare, di carattere conformativo, con esclusione dalla possibilità di indennizzo, in base alle limitazioni di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999.
3.1. Non può dunque essere condivisa l'osservazione delle ricorrenti per cui "di tali previsioni legislative di fatto non ha tenuto nessun conto la corte giudicante".
4. Con il secondo motivo di impugnazione le ricorrenti si dolgono della "omessa insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia".
Con riferimento ai vincoli relativi alle particelle 1559 e 1560, il Comune, già con il piano di fabbricazione dell'8 ottobre 1979, successivamente poi ripreso nel PRG approvato il 14 dicembre 1989, aveva vincolato le proprietà nel modo seguente: la particella 1560, in seguito alla approvazione del piano particolareggiato di zona, ricadeva in parte in verde attrezzato ed in parte in sede stradale, mentre la particella 1559, ricadeva in parte in verde attrezzato ed in parte in sede stradale, oltre che in parte all'interno di un lotto. Le particelle nn. (Omissis) ricadevano tutte in zona F4 (verde attrezzato).
La Corte d'appello, invece, ha ritenuto che l'intera particella n. (Omissis) fosse ricompresa in verde attrezzato. Peraltro, in base alle affermazioni della CTU, alla data della relazione, la particella n. (Omissis) ricadeva completamente nella zona ZTO C1 "di completamento delle previsioni del precedente PRG", mentre per la particella n. (Omissis) "solo 340 m² ricadono in zona ZTO C1, mentre, 510 m² ricadono in zona ZTO F3 (verde di quartieri e parchi urbani e suburbani)".
A tale destinazione (ZTO F3) erano vincolate anche le particelle nn. (Omissis). Pertanto, la particella (Omissis) "soffre di due vincoli differenti": una parte in zona ZTOC1 e un'altra in zona ZTOF3.
La particella, allora, non può rientrare tra i vincoli inquadrabili nella zonizzazione del territorio comunale, in quanto i terreni "sono ubicati quasi al centro del paese (...) porzioni rilevanti (circa 510 mq) della particella (Omissis) ricadono in zona F3 (verde di quartiere e parchi urbani e suburbani)", e tale destinazione sarebbe "radicalmente incompatibile con la permanenza del fondo in proprietà privata"; ciò implicherebbe "la natura ineluttabilmente espropriativa del fondo o di una porzione di esso, essendo esso preordinato all'esproprio".
4.1. Il motivo è inammissibile.
4.2. Anzitutto, il motivo di ricorso per cassazione di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., è stato articolato nella declinazione previgente a quella applicabile nella specie.
Invero, per questa Corte la riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile alle sentenze depositate a partire dall'11 settembre 2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (Cass., sez.un., 7 aprile 2014, n. 8053); con la precisazione che l'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez.un., 7 aprile 2014, n. 8053).
Nella specie, le ricorrenti si sono limitate a dedurre del tutto genericamente il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione.
Inoltre, esse non hanno riportato neppure il contenuto della relazione del CTU di prime cure.
4.3. Peraltro, le ricorrenti hanno dedotto che il giudice d'appello sarebbe stato indotto in errore dalla relazione del CTU (che dunque avrebbe in qualche misura condiviso), senza, però, riportare il contenuto della stessa, neppure per stralcio.
La giurisprudenza più recente di questa Corte ritiene che nel nuovo testo dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., con lo specifico vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, non è inquadrabile la censura concernente l'omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., sez. 1, 18 ottobre 2018, n. 26305); si è in particolare affermato che non è carente di motivazione la sentenza che recepisce per relationem le conclusioni ed i passi salienti di una relazione di consulenza tecnica d'ufficio della quale dichiara di condividere il merito, ancorché si limiti a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini esperite e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione (Cass., sez. 6-3, 14 febbraio 2019, n. 4352).
Pertanto, il ricorrente non può limitarsi a dolersi del vizio di motivazione per omesso esame di fatto decisivo per il solo fatto che il giudice del merito abbia recepito adesivamente le conclusioni attinte dal consulente tecnico d'ufficio, senza affrontare e confutare le specifiche critiche rivolte all'elaborato peritale dal difensore o dal consulente tecnico di parte, ma deve individuare ed evidenziare un preciso fatto storico (o più precisi fatti storici), sottoposto alla dialettica del contraddittorio dalla difesa, legale o tecnica, di natura decisiva, tale cioè da ribaltare o modificare significativamente l'esito della lite, che il giudice del merito abbia omesso di considerare. Non è la critica, in sé per sé, alla consulenza tecnica recepita dal giudice che rileva ai fini della deduzione di omesso esame di fatto decisivo ex art. 360, primo comma, n. 5 e del novellato mezzo di ricorso per vizio motivazionale, ma il fatto storico, decisivo, che sia stato oggetto di discussione e sia stato fatto valere dalla parte interessata attraverso le critiche rivolte all'elaborato del perito (Cass., sez. 1, 16 marzo 2022, n. 8584; Cass., sez. 1 13 ottobre 2020, n. 22056).
5. Tra l'altro, questa Corte, con riferimento all'omesso esame della stessa consulenza tecnica d'ufficio ha svolto un ragionamento analogo. Infatti, l'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., come riformulato dal decreto-legge n. 83 del 2012, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui ambito non è inquadrabile la consulenza tecnica d'ufficio atto processuale che svolge funzioni di ausilio del giudice nella valutazione dei fatti e degli elementi acquisiti (consulenza c.d. deducente) ovvero, in determinati casi (come in ambito di responsabilità sanitaria), fonte di prova per l'accertamento dei fatti (consulenza c.d. percipiente) -in quanto essa costituisce mero elemento istruttorio da cui è possibile trarre il fatto storico, rilevato e/o accertato dal consulente (Cass., sez. 6-3, 24 giugno 2020, n. 12387).
Le ricorrenti chiedono, dunque, una nuova valutazione delle risultanze istruttorie, e quindi del merito, non consentita in questa sede.
6. Con il terzo motivo di impugnazione le ricorrenti deducono la "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 39 d.P.R. 327/01", in quanto erroneamente il giudice d'appello ha ritenuto l'insussistenza dell'indennizzo "stante la mancata prova del danno", con riferimento alle p.lle (Omissis). Una volta ritenuto che i terreni sottoposti al vincolo di verde pubblico di parchi, e comunque ricadenti nelle zone F3 e F4, sono preordinati all'esproprio, ed è dovuto l'indennizzo in presenza di reiterazione dei vincoli, il danno sarebbe in re ipsa, essendo chiaro che "l'aver impedito per un lunghissimo periodo la commerciale utilizzazione di un bene, provoca in colui che subisce tale imposizione un danno". Tra l'altro, il CTU "con la consulenza espletata ne determina esattamente gli importi".
6.1. Il motivo è fondato.
6.2. Invero, costituisce orientamento consolidato di legittimità quello per cui la previsione dell'indennità nel provvedimento di reiterazione del vincolo costituisce un momento essenziale del procedimento amministrativo, in funzione dello scopo di questo, che è di consentire la concreta erogazione al proprietario del dovuto ristoro, senza necessità di ricorrere al giudice (Cass. 22 dicembre 2022, n. 37414).
Nell'adozione del provvedimento reiterativo la pubblica amministrazione è tenuta a svolgere una specifica ed esaustiva indagine sulle singole aree, finalizzata a modulare e considerare differenti esigenze, pubbliche e private, tra le quali è compresa la valutazione degli oneri economici connessi al pagamento dell'indennità, la quale deve essere predeterminata quantomeno in via presuntiva, proprio perché "commisurata all'entità del danno effettivamente prodotto"; qui è evidente il rimando all'art. 39 del d.P.R. n. 327 del 2001.
Si è affermato che la diminuzione del prezzo di mercato locativo o di scambio è oggetto di accertamento tecnico cui sono tenuti la pubblica amministrazione, già nella fase di reiterazione del vincolo, e poi il giudice, che è investito della domanda del privato nei casi in cui la pubblica amministrazione non vi provveda o vi provveda in misura ritenuta inadeguata. Analogo accertamento deve riguardare anche altri eventuali pregiudizi - che di regola si manifestano anch'essi in una riduzione del valore di mercato - suscettibili di essere arrecati all'immobile, in caso di ridotta possibilità di utilizzazione rispetto agli usi o alle destinazioni ai quali l'immobile era concretamente o anche solo potenzialmente vocato.
Pertanto, non si collega in modo rigido il riconoscimento del diritto all'indennità ex art. 39 del d.P.R. n. 327 del 2001 al principio dell'onere della prova disciplinato dall'art. 2697 c.c., proprio in relazione alla sua specifica funzione riequilibratrice o, se si vuole, lato sensu sinallagmatica rispetto al provvedimento che reitera il vincolo.
Si è più volte affermato che "la reiterazione dei vincoli scaduti, preordinati all'esproprio o sostanzialmente espropriativi, è considerata legittima, purché sia riconosciuta un'indennità che ripaghi i proprietari della diminuzione del valore di scambio o di utilizzabilità dei loro beni, individuando in tal modo, nella pur legittima attività della P.A., l'esistenza, in linea di principio, di un pregiudizio non tollerabile dal singolo, nel rispetto dell'art. 42 Cost., terzo comma, e per questo indennizzabile sulla base di un meccanismo sostanzialmente automatico (Cass. n. 8530 del 2010), che è tipico della responsabilità da atto legittimo" (in tal senso anche Cass., 3 dicembre 2021, n. 38326).
Pertanto, la quantificazione dell'indennità, ove demandata al giudice, deve essere vagliata in sede giudiziale anche prescindendo dalle prospettazioni delle parti, come già ritenuto a proposito della individuazione del criterio legale di determinazione dell'indennizzo di aree soggette all'esproprio (Cass., 1° agosto 2013, n. 18435; Cass., 6 giugno 2018, n. 14623).
Si è anche ritenuto che non risulta necessario che nell'atto di citazione sia quantificata la somma pretesa titolo di indennità (Cass., 25 giugno 2020, n. 12619), e che non occorra la prova rigorosa del pregiudizio lamentato, che è indennizzabile sulla base di un meccanismo sostanzialmente automatico (Cass. 37414/2022).
Nella specie, il giudice d'appello, dopo aver evidenziato che le attrici avevano inteso chiedere l'indennizzo tenendo conto della "posta di danno costituita dalla diminuzione del prezzo di mercato del fondo di loro proprietà", ha poi rigettato la richiesta di indennizzo essendo "emersa dagli atti di causa (e, segnatamente, dallo svolgimento delle operazioni di CTU) una circostanza che depone semmai in senso contrario all'assunto delle attrici circa la sussistenza di un pregiudizio, relativa al fatto che le stesse, con atto rogato nel luglio 2007, hanno venduto la particella (Omissis) (ricadente - come visto supra - parte in zona C1 legge 167 e parte in zona F4 - verde pubblico), ad una società cooperativa edilizia, e dunque per gli scopi propri della destinazione urbanistica impressa dalla pianificazione comunale".
Ora, a prescindere dalla circostanza che la richiesta di indennizzo atteneva non solo alla particella (Omissis) ma anche a quelle di cui ai nn. (Omissis) (tutte però assoggettate a potere conformativo e quindi non indennizzabili), è evidente che, con riferimento alle particelle nn. (Omissis) (soggette invece a vincolo preordinato all'esproprio), proprio in ragione delle conclusioni del CTU, cui ha aderito il giudice di prime cure, il prezzo di vendita era stato di sicuro inferiore a quello che il bene aveva prima dell'apposizione dei vincoli di esproprio.
Trova, allora, applicazione il principio giurisprudenziale di legittimità per cui la reiterazione dei vincoli scaduti preordinati all'esproprio o sostanzialmente espropriativi, oltre il limite temporale consentito, è riconducibile a un'attività legittima della P.A., la quale è tenuta a svolgere una specifica ed esaustiva indagine sulle aree incise, tenendo conto delle loro caratteristiche in concreto, al fine di determinare nell'atto medesimo, quantomeno in via presuntiva, e poi di liquidare, un indennizzo in misura non simbolica, che ripaghi il proprietario della diminuzione del valore di mercato o delle possibilità di utilizzazione dell'area rispetto agli usi o alle destinazioni ai quali essa era concretamente, o anche solo potenzialmente, vocata; a tali accertamenti provvede il giudice del merito nei casi in cui la liquidazione sia omessa dalla P.A., o sorgano contestazioni sulla misura dell'indennizzo liquidato in favore del proprietario ma al privato non si richiede di fornire la prova di aver subito un danno ingiusto, competendogli un indennizzo per il sacrificio sofferto in conseguenza di un atto lecito della P.A., e non il risarcimento del danno conseguente ad un atto illecito (Cass., sez. 1, 21 maggio 2018, n. 12468).
7. La sentenza impugnata deve, allora, essere cassata con rinvio alla Corte d'appello di Catania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo motivo di impugnazione; rigetta il primo motivo e dichiara inammissibile il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al terzo motivo, con rinvio alla Corte d'appello di Catania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29 febbraio 2024.
Depositata in Cancelleria il 2 maggio 2024.