Occupazioni illegittime - TAR Campania-Salerno, sez.II, sent. n.100 del 10.01.2015
Pubblico
Sabato, 10 Gennaio, 2015 - 01:00
Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda), sentenza n.100 del 10 gennaio 2015, sulle occupazioni illegittime
N. 00100/2015 REG.PROV.COLL.
N. 00157/2012 REG.RIC.
N. 01357/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 157 del 2012, proposto da:
Salvatore Dello Jacono ed Antonio Dello Jacono, rappresentati e difesi dagli avv. Orazio Abbamonte e Giuseppe Abbamonte, con domicilio eletto in Salerno, via Incagliati n.2, presso l’avv. Caliulo;
contro
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliato in Salerno, corso Vittorio Emanuele n. 58;
sul ricorso numero di registro generale 1357 del 2013, proposto da:
Salvatore Dello Jacono ed Antonio Dello Jacono, rappresentati e difesi dagli avv. Orazio Abbamonte e Giuseppe Abbamonte, con domicilio eletto in Salerno, via Incagliati n.2, presso l’avv. Caliulo;
contro
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliato in Salerno, corso Vittorio Emanuele n. 58;
società Espropri Italia s.r.l., rappresentata e difesa dall'avv. Gianni Cerisano, con domicilio eletto in Salerno, c.so Garibaldi n. 181, presso l’avv. Vitolo;
nei confronti di
Mario Dello Jacono, eredi Dello Jacono Giovanni;
per l'annullamento
quanto al ricorso n. 157 del 2012:
della nota MBAC-SBA-SA0015312 del 22.11.2011, con la quale si dispone il rigetto dell’istanza inoltrata il 13.6.2011 relativamente alla conclusione del procedimento di accordo amichevole per la corresponsione delle indennità di occupazione illegittima ed acquisitiva concernente la proprietà dei ricorrenti, per l’accertamento del diritto degli stessi alla liquidazione del risarcimento dovuto e di tutte le indennità spettanti anche ai sensi degli artt. 43 e/o 42 bis d.P.R. n. 327/2001, sia a titolo di occupazione legittima che illegittima, oltre interessi e rivalutazione monetaria
quanto al ricorso n. 1357 del 2013:
del decreto n. rep. 332/2012 del 28.11.2012 e 13.1.2013 a firma del Direttore Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per i Beni Archeologici, con il quale si dispone la dichiarazione di pubblica utilità preordinata all’espropriazione degli immobili di proprietà dei ricorrenti e di Dello Jacono Giovanni e Dello Jacono Mario, siti in Atripalda alla località Civita, censiti al foglio 1, p.lle 159, 161, 211, 212 e 213, del decreto di espropriazione rep. n. 97/2013 del 10.4.2013 concernente i suddetti beni immobili, dell’avviso prot. n. 4765 del 30.4.2013, recante la comunicazione di immissione nel possesso per il giorno 10.6.2013, nonché per l’accertamento del diritto dei ricorrenti a percepire, nei limiti della loro quota di comproprietà, il valore effettivo del suolo occupato e mai restituito e ad ottenere il risarcimento dei danni subiti e subendi per l’effettiva apprensione e trasformazione delle aree, calcolando anche l’intervenuta distruzione di tutti i fabbricati esistenti nel periodo di occupazione dei suoli, oltre che per la condanna dell’amministrazione alla corresponsione delle somme richieste per l’occupazione dal 1975 alla data del rinnovato esproprio, oltre interessi legali e rivalutazione fino al soddisfo, nonché per l’accertamento del diritto alla corresponsione del premio dovuto per il rinvenimento dei resti archeologici come risultanti dai diari di scavo in possesso dell’amministrazione
Visti i ricorsi e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della società Espropri Italia s.r.l.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 novembre 2014 il dott. Ezio Fedullo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Il ricorso n. 157/2012.
Espongono i ricorrenti sigg. Dello Jacono Salvatore e Dello Jacono Antonio, con il ricorso n. 157/2012, di aver impugnato con precedente ricorso il decreto del 24.4.2009, con il quale il Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali aveva disposto, ex art. 43 d.P.R. n. 327/2001, l’acquisizione sanante dell’area edificatoria di circa mq. 24.000 sita in Atripalda, alla località Civita, di proprietà degli stessi ricorrenti ed interessata fin dal 1975 dall’occupazione d’urgenza disposta dall’intimata amministrazione a seguito del rinvenimento di reperti archeologici.
Allegano che la prima ordinanza di occupazione d’urgenza e le successive proroghe erano state annullate in sede giurisdizionale e che, nonostante gli annullamenti, il Ministero aveva prorogato ulteriormente l’originaria occupazione di anno in anno, finché nel 1988 non era intervenuto il decreto di riedizione della dichiarazione di pubblica utilità, mai attuato ed ugualmente annullato dal T.A.R., così come i successivi decreti ministeriali di proroga dell’occupazione (l’ultimo dei quali intervenuto in data 8.9.1997).
Aggiungono di aver altresì convenuto innanzi al Tribunale di Napoli il Ministero dei BB.CC.AA. per responsabilità da atto illecito, in quanto, nelle more delle ripetute proroghe dell’occupazione e della dichiarazione di pubblica utilità dei suoli di loro proprietà, tutte come già detto annullate in sede giurisdizionale dall’adito T.A.R., era intervenuta (nell’anno 1979) la modifica del P.R.G. con la eliminazione della vocazione edificatoria dei suoli e la classificazione dell’area come destinata a Parco Archeologico, che precludeva la possibilità di realizzare i fabbricati assentiti dal Sindaco di Atripalda fin dal 1974: il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 14374/2001, parzialmente riformata dalla Corte di Appello con la sentenza n. 443/2004, aveva condannato quindi l’amministrazione al risarcimento dei danni subiti sia per tutte le spese sostenute per ottenere le licenze edilizie ed avviare i lavori sia per il lucro cessante, commisurato alla perdita dei canoni di locazione dalla presumibile data di ultimazione dei lavori, così come al pagamento dell’indennità di occupazione fino al 1998 (data di intervento del decreto di esproprio, poi annullato dal T.A.R.).
Il T.A.R. di Salerno a sua volta, con la sentenza n. 393 del 26.3.2008, aveva annullato la dichiarazione di pubblica utilità, le successive proroghe ed il decreto di esproprio del 1998.
Il Ministero, quindi, aveva adottato e notificato il decreto del 25.2.2009, disponente l’acquisizione dei suoli in questione ex art. 43 dpr n. 327/2001 “…al prezzo, già erogato, di euro 16.620.650,09, di cui euro 225.266,41 a titolo di indennità di esproprio ed euro 16.395.384,58 a titolo di risarcimento danni, rivalutazione monetaria, interessi e spese dei giudizi sostenuti nei confronti dell’Amministrazione”.
Avverso il menzionato decreto erano quindi insorti gli odierni ricorrenti, dolendosi del fatto che le somme già corrisposte erano imputabili alla perdita dello ius aedificandi (lucro cessante e danno emergente) e, quindi, ad una causa diversa dal trasferimento coattivo, il cui corrispettivo non risultava ancora versato e neppure determinato con le modalità previste dall’art. 43 del dpr n. 327/01: il predetto decreto veniva quindi impugnato nella sola parte in cui non determinava, nei modi stabiliti dal citato art. 43 dpr n. 327/01 il risarcimento del danno derivante dal definitivo trasferimento alla P. A. dei beni in esso considerati, limitandosi a determinare detto risarcimento nella misura stabilita con la sentenza della Corte di Appello di Napoli n. 443/2004 (in virtù della quale i ricorrenti avevano ricevuto complessivi € 4.109.338,00), senza considerare che i titoli di attribuzione delle somme liquidate in detta sentenza non comprendevano il risarcimento per trasferimento coattivo ex art. 43 T.U. n. 327/2001, per il quale i ricorrenti avevano quindi chiesto, con il ricorso predetto, la condanna dell’amministrazione, nonché nella parte in cui non liquidava l’indennità di occupazione, calcolata dal Tribunale di Napoli solo fino al 1998 e mai erogata ma solo depositata presso la Cassa Depositi e Prestiti (nella misura di € 225.266,41), nonostante l’occupazione fosse iniziata nel 1975 e tuttora perdurasse, indennità per la quale ugualmente essi avevano chiesto una pronuncia di condanna.
Il T.A.R., nell’ambito del suddetto giudizio, aveva disposto una C.T.U. allo scopo di determinare il valore venale dei beni: l’ing. Pagano, all’uopo nominato, aveva concluso le operazioni di stima attribuendo agli immobili il complessivo valore di € 1.107.833,00.
Con la sentenza n. 571 del 31.3.2011 il T.A.R., nel pronunciarsi sul citato ricorso n. 789/2009, ha tuttavia dichiarato l’improcedibilità dello stesso, essendo stato il predetto decreto già annullato con la sentenza n. 570/2011, in conseguenza dell’intervenuto annullamento dell’art. 43 d.P.R. 327/2001 operato con la sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2010, mentre lo ha ritenuto fondato nella parte in cui veniva lamentata la mancata liquidazione dell’indennità di occupazione per impossibilità di utilizzazione del bene, calcolata dal Tribunale di Napoli solo fino al 1998 e mai erogata, nonostante perdurasse dal 1975: a tal fine il Tribunale Amministrativo, facendo applicazione dell’art. 35 d.lvo n. 80/1998, fissava alle parti il termine di novanta giorni per addivenire ad un accordo sulla somma da corrispondere ai ricorrenti, statuendo che essa avrebbe dovuto essere determinata nel rispetto del principio del ristoro integrale del danno subito (Corte cost., n. 949/2007), con riferimento al danno relativo al periodo della sua utilizzazione senza titolo e fino alla sua effettiva restituzione, oltre gli interessi moratori, prescrivendo altresì che “la somma da corrispondere andrà depurata di ogni corresponsione di somme medio tempore eseguita in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario o risarcitorio, in relazione alla vicenda ablatoria per cui è causa”.
I ricorrenti evidenziano che lo stesso decreto in quella sede impugnato, emesso come si è detto ai sensi dell’art. 43 d.P.R. n. 327/2001, confermava che era stato loro corrisposto l’importo di € 16.395.384,58 a titolo di risarcimento dei danni, come disposto dalla Corte di Appello di Napoli con la sentenza n. 443/2004, mentre l’indennità di esproprio era stata depositata presso la Cassa Depositi e Prestiti, come ordinato dal Tribunale di Avellino con il decreto n. 2707 del 2.9.1997.
Deducono altresì che, sia nella perizia dell’ing. Pagano che nella sentenza della Corte di Appello, il valore venale del fondo e della casa colonica era stato scorporato e gli importi liquidati erano solo quelli relativi ai danni, come è dimostrato dal fatto che gli altri due eredi (Dello Jacono Giovanni e Dello Jacono Mario) avevano chiesto, in luogo dell’equivalente monetario, la restituzione del bene, che era stata anche riconosciuta dal Commissario ad acta a seguito della sentenza di ottemperanza n. 18/2009.
I ricorrenti lamentano quindi, con il menzionato ricorso n. 157/2012 che viene all’odierno esame del Tribunale, l’illegittimità della nota impugnata, con la quale il Ministero intimato afferma che essi “hanno percepito integralmente gli importi risarcitori liquidati dalla Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 443/2004”, che “in esito a detta riscossione hanno rinunciato a tutti i ricorsi presentati innanzi al TAR Campania Sez. Salerno, aventi ad oggetto sia l’annullamento dei decreti di occupazione d’urgenza e delle connesse proroghe, sia della dichiarazione di p.u. a suo tempo formulate dal Ministero in vista dell’espropriazione del compendio immobiliare”, che “le poste risarcitorie liquidate dalla Corte d’Appello con la sentenza n. 443/2004 attengono espressamente al ristoro sia del danno emergente che del lucro cessante conseguenti alla mancata disponibilità e utilizzazione delle aree di proprietà dei germani Dello Iacono”, che non può “essere richiesta alcuna indennità o risarcimento che abbia come presupposto la mancata utilizzazione del fondo” e che “il T.A.R. Campania, con la sentenza n. 571/2011, pur riconoscendo astrattamente il diritto dei germani Dello Jacono alla percezione di indennità di occupazione, dispone espressamente che le stesse siano in ogni caso depurate di tutte le somme già corrisposte in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario o risarcitorio, in relazione alla vicenda ablatoria di cui è causa”.
Mediante le censure formulate avverso l’atto suindicato, i ricorrenti deducono quindi, in sintesi, che l’amministrazione intimata si è limitata ad affermare che essi “avevano già percepito gli importi risarcitori di cui alla sentenza di appello”, omettendo di considerare che la pronuncia del giudice ordinario aveva ad oggetto la liquidazione del danno emergente e del lucro cessante per la mancata realizzazione degli edifici autorizzati, non l’indennità per l’espropriazione/occupazione acquisitiva, ovvero le somme compensative della perdita della proprietà a seguito della trasformazione irreversibile del fondo e della sua acquisizione per scopi pubblici.
La difesa erariale si oppone, con dovizia di argomentazioni, all’accoglimento del ricorso.
Con la memoria dell’11.11.2014, i ricorrenti hanno richiesto che, ai fini della liquidazione del danno, si faccia riferimento alla perizia del tecnico di parte ing. Albanese o in subordine a quella redatta dal c.t.u. nominato dal T.A.R, ing. Pagano.
2. Il ricorso n. 1357/2013.
Il successivo ricorso n. 1357/2013, proposto dai medesimi sigg. Dello Jacono Salvatore e Dello Jacono Antonio, si rivolge invece avverso il decreto n. rep. 332/2012 del 28.11.2012 e 13.1.2013, a firma del Direttore Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per i Beni Archeologici, con il quale si dispone la dichiarazione di pubblica utilità preordinata all’espropriazione degli immobili di proprietà dei ricorrenti e di Dello Jacono Giovanni e Dello Jacono Mario, siti in Atripalda alla località Civita, censiti al foglio 1, p.lle 159, 161, 211, 212 e 213, avverso il decreto di espropriazione rep. n. 97/2013 del 10.4.2013 concernente i suddetti beni immobili ed avverso l’avviso prot. n. 4765 del 30.4.2013, recante la comunicazione di immissione nel possesso per il giorno 10.6.2011.
Mediante le censure formulate in ricorso, viene lamentato che i beni interessati dal procedimento espropriativo sono stati sottratti illegittimamente ai proprietari, che il terreno è stato asportato e scavato in ogni dove e i fabbricati rurali sono stati abbattuti, per cui si vorrebbe espropriare un bene detenuto illegittimamente da oltre 40 anni come se fosse un campo incolto, ovvero ad un valore irrisorio di € 3,5/mq, mentre il Tribunale di Napoli ha fissato una indennità di occupazione di £ 62.000/mq nel 2001, alla quale la Soprintendenza ha prestato acquiescenza.
Un ulteriore vizio di illegittimità discende, ad avviso dei ricorrenti, dalla mancata determinazione del risarcimento del danno conseguente all’acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis d.P.R. n 327/2001, essendosi l’amministrazione limitata a quantificare una ridottissima indennità di esproprio, omettendo di verificare in contraddittorio il valore di mercato del bene, già fissato da una C.T.U. e da una sentenza.
Sotto altro profilo, viene dedotta la nullità dei provvedimenti impugnati per violazione ed elusione del giudicato, essendo state le opere già realizzate, analogamente a quanto sancito dal Consiglio di Stato per l’ipotesi in cui il T.A.R. abbia condannato la P.A. ad operare la scelta ai sensi dell’art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001, senza trascurare che nel caso di specie la Soprintendenza ha attivato la procedura d’urgenza di cui all’art. 22, come se il bene fosse stato appreso per la prima volta.
Quanto al suolo sul quale avrebbe dovuto essere realizzato il fabbricato assentito con la licenza n. 344, poiché la Corte d’Appello, nel liquidare il risarcimento del danno per indebita sottrazione dello ius aedificandi, ha ritenuto di non considerarlo, essendo necessario per l’edificazione l’autorizzazione ex artt. 11 e 12 l. n. 1089/1939, viene chiesto di valutare anche in relazione ad esso il risarcimento del danno per lesione dello jus aedificandi e mancato godimento dei realizzandi appartamenti.
Viene altresì dedotto che l’atto impugnato è affetto da illegittimità derivata da quella inficiante gli atti da esso richiamati e già annullati in sede giurisdizionale.
Infine, viene allegato che sono state omesse le garanzie partecipative, necessarie al fine di distinguere le rispettive posizioni dei singoli proprietari, sul modello dell’espropriazione di beni indivisi ex art. 599 c.p.c..
Con la memoria dell’11.11.2014, i ricorrenti hanno richiesto che, ai fini della liquidazione del danno, si faccia riferimento alla perizia del tecnico di parte ing. Albanese o in subordine a quella redatta dal c.t.u. ing. Pagano.
Sia la difesa erariale che la società Espropri Italia s.r.l. si oppongono, con plurimi argomenti, all’accoglimento del ricorso, la seconda altresì eccependone l’inammissibilità dello stesso nei suoi confronti, non avendo esercitato alcun potere che venga in rilievo nella presente controversia.
I ricorsi predetti quindi, dopo la discussione delle parti, sono stati trattenuti per la decisione.
DIRITTO
Ritiene preliminarmente il Tribunale di disporre la riunione dei ricorsi n. 157/2012 e n. 1357/2013, attesi i profili di connessione soggettiva ed oggettiva tra loro sussistenti.
Assume inoltre carattere prioritario l’esame del ricorso n. 1357/2013, proposto dai ricorrenti avverso il decreto dichiarativo della pubblica utilità preordinata all’espropriazione degli immobili siti in Atripalda alla località Civita, censiti al foglio 1, p.lle 159, 161, 211, 212 e 213, ed avverso il consequenziale decreto di espropriazione del 10.4.2013, concernente i suddetti beni immobili.
Invero, la sussistenza in capo all’amministrazione di un valido titolo di acquisto della proprietà concernente gli immobili di cui si tratta, quale dovrebbe essere rappresentato nella specie dal suddetto decreto di esproprio, incide indubbiamente sulla attuale azionabilità della pretesa dei ricorrenti (fatta principalmente valere con il ricorso n. 157/2012) alla percezione del ristoro per la perdita della proprietà sui medesimi immobili oltre che sul quantum della stessa, così come sulla sua qualificazione giuridica.
In proposito, deve in primo luogo respingersi l’eccezione di inammissibilità del ricorso nei confronti della società Espropri Italia s.r.l., sulla scorta del difetto di legittimazione passiva da essa eccepito: deve invero osservarsi che la suddetta società, in quanto incaricata dal Ministero intimato della conduzione della procedura ablatoria de qua, riveste quantomeno la posizione di controinteressata, siccome portatrice dell’interesse (anche economicamente rilevante) all’utile espletamento della procedura suindicata.
Nel merito, la domanda di annullamento proposta con il ricorso n. 1357/2013 è meritevole di accoglimento.
E’ fondata, in particolare, la censura con la quale i ricorrenti si dolgono del fatto che il provvedimento espropriativo impugnato ha ad oggetto beni già sottratti illegittimamente agli originari proprietari ed interessati da cospicui interventi modificativi, consistenti nell’asportazione di terreno, nella esecuzione di opere di scavo dello stesso e nella demolizione dei fabbricati rurali ivi insistenti.
Al riguardo, deve osservarsi che la possibilità di emettere un provvedimento di esproprio con riguardo ad un bene immobile già interessato da interventi modificativi posti in essere dall’amministrazione occupante in vista di finalità di pubblico interesse trova, nell’attuale contesto ordinamentale, un ostacolo insuperabile nel disposto di cui all’art. 42 bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, contemplante la fattispecie della “utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”, il cui primo comma dispone che “valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene”.
Non vi è dubbio che la norma tracci un percorso procedimentale obbligato, non surrogabile dal ricorso all’ordinario procedimento espropriativo, cui l’amministrazione è tenuta ad uniformarsi al verificarsi della fattispecie da essa delineata, integrata - come si è visto - dalla “utilizzazione di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”.
E’ infatti evidente che, qualora fosse data all’amministrazione la facoltà alternativa di avvalersi, in costanza della descritta situazione, dell’ordinario potere ablatorio, la disposizione citata, e con essa i più gravosi (in termini essenzialmente economici) effetti che comporta per l’amministrazione il ricorso allo strumento dell’acquisizione sanante (si veda ad esempio quanto prevede il comma 1 per il ristoro del pregiudizio non patrimoniale), sarebbero facilmente elusi, a detrimento del proprietario illegittimamente privato della disponibilità (ed ora anche della proprietà) del bene interessato.
Né potrebbe dubitarsi del ricorrere, nella fattispecie in esame, dei presupposti applicativi della disposizione citata, i quali trovano sufficiente conferma, ex latere administrationis, nel decreto del 25.2.2009, pur se annullato (sotto altri profili) dal giudice amministrativo, avente ad oggetto l’acquisizione dei suoli in questione ex art. 43 d.P.R. n. 327/2001, il quale contempla(va) una fattispecie non dissimile da quella oggi delineata dall’art. 42 bis d.P.R. cit..
Non condivisibili appaiono invece, per escludere la pertinenza dell’art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001, le deduzioni della società Espropri Italia s.r.l., nel senso che, in considerazione della irrinunciabilità da parte dello Stato della tutela del patrimonio archeologico, non sarebbe ammissibile la valutazione di opportunità presupposta dalla norma citata circa l’acquisizione del bene o la sua restituzione al proprietario: basti osservare che lo Stato può decidere di perseguire i suoi indeclinabili scopi di salvaguardia dei beni archeologici, pur permanendone la proprietà in capo ai privati, avvalendosi delle disposizioni di tutela all’uopo contemplate dal d.lvo n. 42/2004 (risultando quindi non assolutamente necessaria la scelta ablatoria).
Ugualmente irrilevante, ai fini dell’applicazione della norma citata (e la connessa preclusione dell’ordinario procedimento espropriativo), è il carattere irreversibile delle modifiche apportate al bene privato durante il periodo di occupazione, nessuna previsione essa recando al riguardo (ed essendo anzi la reversibilità della trasformazione una delle condizioni per il compimento della scelta restitutoria, potendo restituirsi solo ciò che sia nuovamente suscettibile di utilizzazione da parte del privato proprietario).
Le considerazioni svolte trovano del resto indiretta conferma nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 544 del 29.1.2013, con la quale, sebbene con riferimento alla posizione dei comproprietari e germani degli odierni ricorrenti (sig.ri Dello Jacono Giovanni e Dello Jacono Mario), è stato affermato che “il Ministero resta titolare del potere di emettere un ulteriore decreto di acquisizione, ai sensi dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri (come modificato a seguito della richiamata sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2010)”.
In conclusione, il ricorso n. 1357/2013 deve essere accolto, e conseguentemente annullati i provvedimenti con esso impugnati, relativamente all’interesse dei ricorrenti sig.ri Dello Jacono Salvatore e Dello Jacono Antonio ed alle quote di loro proprietà, mentre può dichiararsi l’assorbimento delle censure non esaminate.
Le richieste risarcitorie ed indennitarie formulate con il medesimo ricorso n. 1357/2013 possono invece essere esaminate congiuntamente a quelle, analoghe, formulate con il ricorso n. 157/2012.
Con quest’ultimo ricorso, in particolare, i ricorrenti sig.ri Dello Jacono Salvatore e Dello Jacono Antonio, in relazione alla complessa vicenda espropriativa che ha interessato gli immobili di loro proprietà, premesso che il ristoro loro riconosciuto dal giudice civile ha avuto quale causa petendi la responsabilità da atto illecito del Ministero dei BB.CC.AA. per i danni conseguenti alla perdita, nelle more delle ripetute proroghe dell’occupazione e della dichiarazione di pubblica utilità dei suoli di loro proprietà, tutte annullate in sede giurisdizionale, della sfruttabilità edificatoria degli stessi, ormai urbanisticamente classificati come Parco Archeologico, e che quindi le poste risarcitorie loro già giudizialmente riconosciute ineriscono essenzialmente, da un lato, alle spese sostenute per ottenere le licenze edilizie ed avviare i lavori, dall’altro lato, al lucro cessante commisurato alla perdita dei canoni di locazione dalla presumibile data di ultimazione dei lavori fino al 1998, in aggiunta al pagamento dell’indennità di occupazione maturata fino a tale data (di intervento del decreto di esproprio, poi annullato dal T.A.R. con la sentenza n. 393 del 26.3.2008), lamentano che, nonostante il giudice amministrativo di primo grado, con la sentenza n. 571 del 31.3.2011, abbia ritenuto fondata la domanda intesa al conseguimento dell’indennità di occupazione per l’impossibilità di utilizzazione del bene, calcolata dal Tribunale civile solo fino al 1998 e mai erogata, nonostante l’occupazione perduri dal 1975, fissando alle parti, ex art. 35 d.lvo n. 80/1998, il termine di novanta giorni per addivenire ad un accordo sulla somma da corrispondere al suddetto titolo, l’amministrazione intimata, con la nota impugnata, ha affermato che essi “hanno percepito integralmente gli importi risarcitori liquidati dalla Corte d’Appello di Napoli con la sentenza n. 443/2004”, che “in esito a detta riscossione hanno rinunciato a tutti i ricorsi presentati innanzi al T.A.R. Campania Sez. Salerno, aventi ad oggetto sia l’annullamento dei decreti di occupazione d’urgenza e delle connesse proroghe, sia della dichiarazione di p.u. a suo tempo formulate dal Ministero in vista dell’espropriazione del compendio immobiliare”, che “le poste risarcitorie liquidate dalla Corte d’Appello con la sentenza n. 443/2004 attengono espressamente al ristoro sia del danno emergente che del lucro cessante conseguenti alla mancata disponibilità e utilizzazione delle aree di proprietà dei germani Dello Jacono”, che non può “essere richiesta alcuna indennità o risarcimento che abbia come presupposto la mancata utilizzazione del fondo” e che “il T.A.R. Campania, con la sentenza n. 571/2011, pur riconoscendo astrattamente il diritto dei germani Dello Jacono alla percezione di indennità di occupazione, dispone espressamente che le stesse siano in ogni caso depurate di tutte le somme già corrisposte in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario o risarcitorio, in relazione alla vicenda ablatoria di cui è causa”.
I ricorrenti chiedono quindi, in primo luogo, la liquidazione ed il pagamento dell’indennità per l’espropriazione/occupazione acquisitiva, ovvero le somme compensative della perdita della proprietà a seguito della trasformazione irreversibile del fondo e della sua acquisizione per scopi pubblici, oltre interessi e rivalutazione monetaria.
Tanto premesso, deve rilevarsi che, allo stato, il disposto annullamento, in accoglimento del ricorso n. 1357/2013, del provvedimento ablatorio da ultimo adottato dall’amministrazione intimata, privando quest’ultima di ogni legittimo titolo di acquisizione dell’area de qua, almeno per ciò che concerne la posizione dei ricorrenti, impone di fare applicazione dell’indirizzo giurisprudenziale, pienamente conforme ai vigenti parametri normativi anche di matrice sovranazionale, secondo cui (cfr., di recente, T.A.R. per la Basilicata, n. 182 del 7 marzo 2014) “la realizzazione di un'opera pubblica su un fondo oggetto di legittima occupazione in via di urgenza, non seguita dal perfezionamento della procedura espropriativa, costituisce un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, ed è, come tale, inidonea, da sé sola, a determinare il trasferimento della proprietà in favore della pubblica amministrazione. A questa conclusione induce altresì l'art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, aggiunto dall'art. 34, primo comma, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, norma che, anche con riguardo ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, disciplina le modalità attraverso le quali, a fronte di un'utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di pubblico interesse, è possibile - con l'esercizio di un potere basato su una valutazione degli interessi in conflitto - pervenire ad un'acquisizione non retroattiva della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della pubblica amministrazione, sotto condizione sospensiva del pagamento, al soggetto che perde il diritto di proprietà, di un importo a titolo di indennizzo, nella misura superiore del dieci per cento rispetto al valore venale del bene (cfr. Cass. civ., Sez. II, 14 gennaio 2013, n. 705)”.
Alla luce dei principi sopra richiamati, non risultando adottato, nella fattispecie in esame, alcun valido atto acquisitivo da parte del Ministero intimato e non essendosi pertanto verificato l'effetto traslativo della proprietà in capo ad esso, non potendo un fatto illecito, quale è l'irreversibile trasformazione dell'area, operata in violazione delle norme sul procedimento espropriativo, configurare un modo di acquisto della proprietà, deve concludersi che l'illiceità del comportamento dell'amministrazione legittima i ricorrenti, tuttora proprietari del suolo occupato, a chiederne la restituzione, come del resto avvenuto (nelle more dell’adozione del citato provvedimento espropriativo) nei confronti degli altri comproprietari: ne consegue che nessun risarcimento, conseguente alla perdita della proprietà del suolo occupato e correlato nell’importo al suo valore effettivo, è allo stato predicabile, non essendosi l’evento lesivo predetto mai definitivamente verificato.
Tuttavia, ritiene il Tribunale di soffermarsi ugualmente sulla spettanza ai ricorrenti di un credito risarcitorio avente ad oggetto il valore venale dell’area de qua, anche al fine di prevenire eventuali ulteriori appendici contenziose nell’ipotesi di esercizio del suddetto potere acquisitivo da parte dell’intimata amministrazione.
Deve al riguardo premettersi che i ricorrenti hanno già vittoriosamente agito in sede giudiziale (ordinaria) al fine di ottenere il risarcimento del danno commisurato al valore del compendio immobiliare di loro proprietà, determinato alla luce della sua originaria vocazione edificatoria e degli ipotetici risultati della sua esplicazione, conformemente ai progetti edilizi assentiti dalla pubblica amministrazione: tanto si evince dagli stralci della sentenza della Corte di Appello di Napoli n. 443/2004, riportati nell’atto di ricorso.
Emerge, in particolare, dalla citata sentenza civile che il danno emergente (ovvero la perdita di valore patrimoniale) derivante dall’illecito consumato dall’amministrazione mediante l’occupazione e trasformazione della proprietà dei ricorrenti in carenza di un valido titolo espropriativo è stato quantificato senza tenere conto del valore del fondo (pari a £ 436.176.600), espressamente sottratto, insieme ad altre voci (quali il costo complessivo di realizzazione della costruzione), dal valore del patrimonio immobiliare complessivo, costituito dai tre condomini che sarebbero stati realizzati qualora i ricorrenti avessero potuto esplicare le loro facoltà edificatorie.
In proposito, deve ragionevolmente ritenersi che il valore del suolo sia stato scomputato, nell’operazione liquidatoria effettuata dal giudice civile, perché inerente ad una posta patrimoniale ancora (fino, cioè, alla formale acquisizione da parte dell’amministrazione) di pertinenza dei ricorrenti: ne consegue che essa integra tuttora un bene meritevole di ristoro, nell’ipotesi di apprensione autoritativa da parte dell’amministrazione, sebbene con i limiti che in seguito si diranno.
Non sembra invece sostenibile che lo scomputo del valore del suolo da quello del compendio patrimoniale “ipotetico” trovi spiegazione nel fatto che esso avrebbe concorso, nell’ipotesi di effettivo esercizio dello ius aedificandi da parte dei proprietari, al pari del costo di costruzione, ad integrare i mezzi necessari per la realizzazione degli edifici residenziali, non potendosene quindi tenere conto in sede risarcitoria (secondo il principio della compensatio lucri – sotto specie di risparmio di spesa - cum damno): il suolo non costituisce infatti l’oggetto di una spesa che i proprietari, non avendo potuto esercitare i loro diritti edificatori, hanno evitato di sostenere (come sarebbe stato se essi avessero dovuto acquistarlo ex novo), ma un bene di cui erano già titolari, non vanificabile quindi, nel suo valore patrimoniale, in sede di liquidazione risarcitoria del predetto danno emergente.
Né il valore del suolo potrebbe “evaporare”, sul piano patrimoniale, ipotizzando che, per effetto della sua trasformazione in chiave edificatoria (di carattere ipotetico, per quanto detto), esso sarebbe divenuto “altro” rispetto alla sua identità originaria: con la conseguenza che, una volta accordato il risarcimento del danno per la mancata attuazione del programma residenziale, non residuerebbe alcun autonomo valore del suolo, suscettibile di ristoro nell’ipotesi di definitiva acquisizione dello stesso da parte dell’amministrazione.
La tesi, pur astrattamente condivisibile, non è rilevante ai fini del decidere (ovvero al fine di stabilire, pur dopo la citata sentenza civile, la persistenza di un autonomo valore del suolo, da ristorare nell’ipotesi di sua apprensione autoritativa): essa non elide invero la circostanza decisiva della espressa sottrazione del valore del suolo da quello del complesso residenziale operata dal giudice civile in sede di quantificazione del risarcimento del danno, la quale non avrebbe avuto ragion d’essere se il giudice civile avesse considerato il suolo come trasformato e incorporato negli immobili residenziali il cui valore ha posto a base del risarcimento ed impone anzi l’esigenza di ristorare i proprietari, pur nei limiti che saranno tra breve precisati, nell’ipotesi di definitiva perdita dei loro diritti dominicali sull’area.
Sotto altro profilo, deve poi osservarsi che l’opzione risarcitoria già utilmente esperita dai ricorrenti non è suscettibile di assumere valenza abdicativa dei loro diritti dominicali, sia in virtù dei rilievi appena svolti (ovvero perché ne è rimasto fuori il valore del suolo), sia perché, almeno a far data dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo 30 maggio 2000, ric. 31524/96, Società Belvedere Alberghiera, “la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4970 del 2 settembre 2011).
Dai rilievi appena svolti consegue, da un lato, che qualora l’amministrazione intimata dovesse ritenere di avvalersi del meccanismo acquisitivo di cui all’art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001, essa dovrà tenere conto e soddisfare i diritti risarcitori dei ricorrenti, correlati al valore del fondo illecitamente occupato ed utilizzato per le sue finalità, dall’altro lato che, nel fare ciò, essa non potrà non depurare quel valore del quid pluris connesso all’originaria vocazione edificatoria della proprietà, la cui esplicazione (sebbene ipotetica) è già stata risarcita a favore dei suddetti, a pena di indebita duplicazione del quantum risarcitorio: in tale (limitato) senso deve essere intesa ed applicata la precisazione, contenuta nella sentenza del giudice di appello n. 544/2013, secondo cui l’amministrazione, nell’adottare un nuovo decreto acquisitivo, “dovrà tenere conto delle somme già corrisposte in precedenza in base a titoli di acquisto giuridicamente divenuti irrilevanti o comunque finalizzate all’acquisto dell’area, anche in esecuzione di sentenze”.
Non potrà quindi essere assunto, quale parametro di riferimento per la determinazione del ristoro relativo alla perdita della proprietà del suolo, il valore dello stesso così come quantificato dal c.t.u. (ing. Luigi Pagano) nell’ambito del giudizio amministrativo conclusosi con la sentenza n. 571/2011, pari ad € 1.107.883,00: deve infatti osservarsi che esso risulta ispirato ad una ipotetica attitudine edificatoria dei suoli de quibus, contrastante oltre che con la destinazione urbanistica ormai impressa (quantomeno a far data dal 1979, secondo le allegazioni attoree) dallo strumento urbanistico generale del Comune di Atripalda, con il già avvenuto risarcimento conseguito dai ricorrenti per il danno derivante dalla mancata realizzazione dell’attività edilizia programmata.
Per le ragioni appena esposte, deve essere ugualmente respinta, allo stato, l’analoga domanda, formulata con il ricorso n. 1357/2013, avente ad oggetto il risarcimento dei danni per l’effettiva apprensione e trasformazione delle aree (si ripete, ancora di proprietà pro quota dei ricorrenti), calcolando anche l’intervenuta distruzione di tutti i fabbricati esistenti nel periodo di occupazione dei suoli: sotto tale ultimo profilo, peraltro, deve osservarsi che non è dimostrato che i manufatti asseritamente distrutti non sarebbero stati sostituiti da quelli assentiti con le citate concessioni edilizie, con il conseguente assorbimento del loro valore in quello del patrimonio immobiliare valutato dal giudice civile e posto a fondamento della condanna risarcitoria già inflitta all’amministrazione.
Viene adesso in rilievo la domanda con la quale i ricorrenti mirano al conseguimento dell’”indennità per il periodo di occupazione legittima ed illegittima”, a fronte presumibilmente (anche se non esplicitamente) del danno correlato alla transitoria perdita della disponibilità del suolo de quo per effetto della sua occupazione da parte dell’amministrazione intimata, nelle more della sua restituzione ai proprietari (o della sua definitiva acquisizione da parte della stessa amministrazione).
In proposito, deve in primo luogo osservarsi che trattasi (anch’esso) di petitum formalmente estraneo (almeno per il periodo successivo al 1998) alla portata decisoria delle citate sentenze civili, come peraltro già riconosciuto da questo Tribunale con la sentenza n. 571/2011, con la quale sono stati indicati anche i criteri cui attenersi nella quantificazione dell’importo da corrispondere al suddetto titolo ai ricorrenti, nel senso che esso avrebbe dovuto essere determinato “nel rispetto del principio del ristoro integrale del danno subito (Corte cost., n. 949/2007), con riferimento al danno relativo al periodo della sua utilizzazione senza titolo e fino alla sua effettiva restituzione, oltre gli interessi moratori”, pur prescrivendo che “la somma da corrispondere andrà depurata di ogni corresponsione di somme medio tempore eseguita in favore della parte ricorrente, a titolo indennitario o risarcitorio, in relazione alla vicenda ablatoria per cui è causa”.
Deve in primo luogo osservarsi che, non avendo le parti raggiunto alcun accordo sul quantum del risarcimento, la formula appena richiamata non può essere applicata in maniera indiscriminata, ovvero prescindendo da un rapporto di omogeneità tra la voce risarcitoria/indennitaria da liquidare e quella già giudizialmente riconosciuta: ne consegue che né il già riconosciuto e liquidato risarcimento del danno da perdita del valore patrimoniale subito dai ricorrenti, né quello relativo al danno emergente (temporalmente limitato, nel dies ad quem, fino al gennaio 1998, data della nuova procedura espropriativa, caducata da questo Tribunale con la sentenza n. 393 del 26.3.2008), potrebbero assumere rilievo ostativo all’accoglimento della suddetta domanda attorea.
Tuttavia, rileva il Tribunale che la parte ricorrente non ha allegato gli elementi necessari, nel rispetto del principio dispositivo, per consentire al Tribunale di effettuare la valutazione non concordemente operata.
Deve infatti rilevarsi che, come già statuito anche da questo Tribunale (cfr. sentenza n. 1819 del 6 settembre 2013), “nel giudizio amministrativo, ai fini della determinazione del quantum del risarcimento, incombe sul danneggiato l'onere probatorio di fornire la quantificazione del danno, quanto meno sotto il profilo della allegazione dei fatti da cui ricavare l'importo da risarcire, fermo comunque restando l'onere, sancito dall'art. 64 comma 1 c. p. a., di fornire gli elementi di prova che siano nella disponibilità delle parti. Infatti, il sistema probatorio nel giudizio amministrativo può ancora dirsi fondamentalmente retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice, solo in quanto il ricorrente non abbia la disponibilità delle prove, essendo queste nell'esclusivo possesso dell'amministrazione; con la conseguenza che non è consentito al giudice amministrativo di sostituirsi, mediante l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio, alla parte onerata quando questa non si trovi affatto nell'impossibilità di provare il fatto posto a base della sua azione, né può accogliere la domanda di liquidazione in via equitativa del danno ovvero la richiesta di rimessione sul ruolo per proseguire l'istruttoria qualora si tratti di elementi di prova nella disponibilità di parte ricorrente, non essendo consentito al Giudice Amministrativo di sostituirsi alla parte onerata, che avrebbe dovuto produrli tempestivamente”.
Né varrebbe opporre che il giudizio in esame ha ad oggetto la quantificazione di una voce risarcitoria sul cui an si è già pronunciato il Tribunale con la sentenza n. 571/2011, in mancanza di accordo delle parti sul punto: invero, considerata la mancata formulazione di puntuali criteri di liquidazione mediante la sentenza citata, ad eccezione del precetto di massima secondo cui deve assicurarsi il “ristoro integrale del danno subito”, sarebbe spettato alla parte ricorrente, proprio in virtù della correlazione instaurata dalla sentenza citata con il pregiudizio effettivamente subito, offrire congrue allegazioni, assertive e probatorie, in relazione a quest’ultimo.
Per sopperire all’inerzia di parte ricorrente, poi, non può farsi leva, per più ordini di ragioni, sul criterio legale di cui all’art. 42 bis, comma 3, secondo periodo d.P.R. n. 327/2001 (“per il periodo di occupazione senza titolo é computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma”).
Il suddetto criterio presuppone infatti l’adozione del provvedimento acquisitivo ai sensi della norma citata, nella specie (ancora) carente.
Né, per le ragioni già dette, potrebbe assumersi, quale parametro di riferimento per la determinazione del ristoro (da illecita utilizzazione da parte dell’amministrazione del fondo altrui) ai sensi della disposizione citata, il valore del suolo risultante dalla relazione di c.t.u. redatta dall’ing. Luigi Pagano.
Anche ammesso quindi che la domanda testualmente indennitaria dei ricorrenti (come tale, esulante anche dalla giurisdizione amministrativa) possa essere qualificata in chiave risarcitoria, la suddetta voce di danno, rapportata alla mancata utilizzazione del fondo da parte dei proprietari, non può prescindere dalla vocazione urbanistica (Parco Archeologico) posseduta dall’area interessata nel periodo dell’illecita occupazione.
Deve tuttavia ribadirsi che - non sussistendo allo stato le condizioni, come si è detto, per applicare il criterio legale di cui all’art. 42 bis d.P.R. n. 327/2001 - i ricorrenti non offrono alcun parametro al quale ancorare la pretesa de qua, così urbanisticamente contestualizzata: allegazione indispensabile al fine di quantificare, da un punto di vista risarcitorio, un pregiudizio che rinviene la sua fonte diretta nell’impossibilità di svolgimento di una attività coerente con la peculiare destinazione urbanistica dell’area e la cui iniziativa avrebbe dovuto evidentemente muovere dagli stessi interessati, ove non ne fossero stati impediti dalla sua illecita occupazione da parte dell’amministrazione.
Né potrebbe farsi leva sulla citata sentenza della Corte di Appello di Napoli, con la quale il risarcimento del danno emergente (rappresentato dalla mancata percezione dei canoni di locazione che sarebbero stati prodotti dalle unità abitative progettate dai ricorrenti e non realizzate per il fatto illecito dell’amministrazione) è stato limitato al periodo antecedente l’esproprio del 1998 (poi, come si è detto, caducato dal T.A.R. con la sentenza n. 393/2008), per riconoscere eventualmente il risarcimento del danno, quantificato secondo analoghe modalità e criteri, per il periodo successivo al 1998, in conseguenza della rimozione giudiziale dell’evento ablatorio del 1998: deve infatti considerarsi che nessuna espressa domanda in tal senso, a prescindere dalla sua fondatezza, è stata formulata dai ricorrenti, i quali, come si è detto, si sono limitati genericamente a richiedere l’”indennità da occupazione legittima ed illegittima”.
La domanda predetta, introdotta con il ricorso n. 157/2012, deve quindi essere dichiarata allo stato, per la sua genericità, inammissibile, così come quella, formulata con il ricorso n. 1357/2013, avente ad oggetto la condanna dell’amministrazione alla corresponsione delle somme richieste per l’occupazione dal 1975 alla data del rinnovato esproprio: peraltro, per gli anni 1975-1998, sono stati gli stessi ricorrenti, con il ricorso n. 157/2012, ad evidenziare che l’occupazione dell’amministrazione è già stata indennizzata per effetto della citata sentenza del Tribunale Civile di Napoli, mentre il mancato effettivo pagamento del relativo importo non può evidentemente costituire oggetto del presente giudizio (di merito).
Può invece prescindersi dall’annullamento della nota MBAC-SBA-SA0015312 del 22.11.2011, con la quale si dispone il rigetto dell’istanza inoltrata dai ricorrenti il 13.6.2011 ai fini della conclusione del procedimento di accordo amichevole scaturito dalla sentenza n. 571/2011: essa infatti, pur contrastante nel contenuto con i rilievi in precedenza svolti (sotto il profilo del carattere non esaustivo del risarcimento del danno già riconosciuto in sede civile ai ricorrenti), non ha carattere autoritativo e non è quindi suscettibile di pregiudicare il soddisfacimento dei loro diritti risarcitori.
Inammissibile, infine, deve essere dichiarata la domanda, contenuta nel ricorso n. 1357/2013, volta a conseguire la corresponsione del premio dovuto per il rinvenimento dei resti archeologici come risultanti dai diari di scavo in possesso dell’amministrazione: la natura di interesse legittimo facente capo agli interessati (cfr. TAR Lazio, Sez. II quater, n. 2334 del 27.2.2014: “il ritrovamento di reperti archeologici non genera immediatamente nei riguardi dell'Amministrazione l'obbligo giuridico alla prestazione patrimoniale a favore dei proprietari dell'area nella quale è stato effettuato il ritrovamento, bensì implica una preventiva valutazione discrezionale concernente l'an sulla quale deve ritenersi sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo a differenza dei profili attinenti al relativo quantum che - in quanto esclusivamente diretti a contestare la misura remuneratoria e le modalità di riscossione del premio - rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario”) osta infatti all’adozione di una pronuncia di condanna al pagamento del premio, come richiesto dai ricorrenti.
Sussistono infine, sia in considerazione dell’esito composito della controversia, sia della peculiare complessità del suo oggetto, giuste ragioni per disporre la compensazione delle spese di giudizio sostenute dalle parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione staccata di Salerno, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sui ricorsi n. 157/2012 e n. 1357/2013, previa riunione degli stessi:
- respinge allo stato i ricorsi, relativamente alla domanda di condanna al pagamento del risarcimento del danno commisurato al valore della proprietà dei ricorrenti;
- dichiara inammissibili i ricorsi, relativamente alla domanda di condanna al pagamento dell’indennità di occupazione;
- dichiara inammissibile il ricorso n. 1357/2013, relativamente alla domanda di condanna al pagamento del premio per i ritrovamenti archeologici;
- accoglie il ricorso n. 1357/2013, relativamente alla domanda di annullamento del decreto n. rep. 332/2012 del 28.11.2012 e 13.1.2013 a firma del Direttore Generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Direzione Generale per i Beni Archeologici, del decreto di espropriazione rep. n. 97/2013 del 10.4.2013 e dell’avviso prot. n. 4765 del 30.4.2013, e per l’effetto li annulla, salve le ulteriori determinazioni dell’amministrazione intimata.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Salerno nella camera di consiglio del giorno 27 novembre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Antonio Esposito,Presidente
Giovanni Sabbato,Consigliere
Ezio Fedullo,Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/01/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)