NEWS IMPORTANTE: IL TAR PIEMONTE ESCLUDE LA RINUNCIA ABDICATIVA E CONFERMA LA DIVISIONE IN GIURISPRUDENZA SUL PUNTO.
Pubblico
Sabato, 31 Marzo, 2018 - 11:40
Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, (Sezione Prima), sulle occupazioni illegittime, esclusione della c.d. rinuncia abdicativa.
N. 00368/2018 REG.PROV.COLL.
N. 00302/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 302 del 2011, proposto da:
OMISSIS, rappresentata e difesa dagli avvocati Maria Genovese, Battistina Piroddi, con domicilio eletto presso lo studio di questa ultima, in Torino, via Tolmino, 52;
contro
Comune di Cherasco non costituito in giudizio;
Per:
l'annullamento del verbale di deliberazione della Giunta Comunale n. 13 del 24 gennaio 2008 conosciuto in data 17/12/2010 a seguito di esercizio del diritto di accesso agli atti amministrativi, avente ad oggetto "lavori di ampliamento strade Fraz. Veglia e sistemazioni stradali sul territorio comunale-acquisizione terreni".
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 giugno 2017 la dott.ssa Roberta Ravasio e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La ricorrente era proprietaria in Comune di Cherasco di un terreno di circa 1.200 mq censito al locale Catasto terreni al Foglio 8, mapp.93, avente destinazione agricola.
2. Il terreno in questione è adiacente alla strada “frazione Veglia”, in relazione alla quale il Comune di Cherasco, con delibera della Giunta municipale n. 118 del 28/08/2007, ha approvato un progetto esecutivo per la realizzazione di lavori di ampliamento e sistemazione, provvedendo dipoi a contattare tutti i proprietari interessati per verificare la possibilità di addivenire a cessione bonaria: tra essi anche la ricorrente, il cui fondo sopra indicato è adiacente alla strada comunale e del quale in base al progetto esecutivo il Comune doveva acquisire una porzione.
3. Nel frangente la ricorrente ha firmato una sorta di pre-accordo con il quale dimostrava la disponibilità alla cessione gratuita “per l’asservimento dell’area necessaria ad ampliare la strada fino ad ottenere una larghezza dell’asfalto a 6 metri. La proprietaria richiede che in occasione della prossima variante al PRGC venga inserita la possibilità di realizzare un piccolo fabbricato residenziale”, possibilità fino a quel momento non esistente attesa la destinazione agricola del fondo.
4. Accordi bonari sono stati stipulati dal Comune anche con gli altri proprietari, come risulta dalla delibera di Giunta Municipale impugnata, n. 13 del 24 gennaio 2008, oggetto di gravame, nella quale vengono anche esplicitati i criteri di indennizzo e laddove, nella lista dei proprietari interessati, accanto al nome della ricorrente non è indicato alcun indennizzo.
5. L’Amministrazione, senza dover disporre l’occupazione d’urgenza degli immobili, ha quindi preso possesso delle aree necessarie, ha iniziato i lavori nel febbraio 2008 e li ha terminati nel settembre 2009.
6. Dopo di ciò, constatata l’effettiva superficie occupata a danno di ciascuno dei proprietari interessati, il Comune ha determinato le relative indennità di espropriazione: la ricorrente, tuttavia, secondo quanto il Comune ha riferito nella nota di chiarimenti acquisita in corso di causa, in realtà non è mai stata contattata a tale scopo poiché l’Amministrazione riteneva che essa avesse acconsentito alla cessione a titolo gratuito.
7. Il decreto di esproprio, con riguardo al fondo della ricorrente, non è mai stato emesso né è stato stipulato alcun atto comportante traslazione della proprietà.
8. La ricorrente nel 2009, a lavori ultimati, tramite il proprio difensore ha formulato richiesta di restituzione del fondo o, in difetto, di risarcimento del danno: ne è seguita una trattativa che non è andata a buon fine.
9. La ricorrente si è pertanto indotta ad impugnare la delibera di Giunta n. 13 del 24 gennaio 2008, che essa asserisce di aver conosciuto solo nel 2010, lesiva nella misura in cui non riconosce ad essa alcun indennizzo: nell’atto introduttivo del giudizio essa ha pertanto chiesto al Tribunale di annullare la delibera medesima e, in via risarcitoria, di “accertare e dichiarare tenuta l’Amministrazione comunale alla reintegrazione in forma specifica del danno patito dalla ricorrente con conseguente restituzione della parte di terreno acquisita dal Comune di Cherasco senza titolo, ovvero, in subordine, condannare l’Amministrazione al risarcimento del danno per equivalente monetario in misura non inferiore ad E. 5848,00 oltre interessi dal giorno della occupazione illegittima al saldo, oltre alla rivalutazione monetaria.”
10. Nessuno si è costituito in giudizio per il Comune di Cherasco.
11. Con atto depositato il 7 aprile 2011 la ricorrente, premesso di aver ricevuto dalla Amministrazione comunale una comunicazione nella quale si faceva presente che l’occupazione del terreno della signora T. era legittima, che essa aveva manifestato la disponibilità a cederlo gratuitamente, che la richiesta formulata dalla medesima risultava eccessiva e che peraltro il Comune era disponibile ad acquistare l’appezzamento di 90 mq. di proprietà della medesima, utilizzato per l’ampliamento della strada, al prezzo di Euro 2,74 mq., tanto premesso la signora Talamo ha dichiarato di rinunciare alla domanda di annullamento dell’atto impugnato, insistendo solo per le domande risarcitorie.
12. Il ricorso è stato chiamato alla pubblica udienza del 25 gennaio 2017, allorché il Collegio ha chiesto alla Amministrazione di depositare una nota di chiarimenti, adempimento al quale il Comune ha provveduto: dalla nota risulta quanto sopra riferito nonché il fatto che con rogito dell’11 ottobre 2011 la ricorrente ha venduto la restante parte del fondo interessato dall’esproprio, per una superficie di 1.117 mq.. La ricorrente, peraltro, ha prodotto in giudizio copia dell’atto di vendita, dal quale risulta che il corrispettivo pattuito per la vendita è pari ad Euro 4.500,00, corrispondente ad E. 4,02 al mq.
13. Il ricorso è quindi tornato per la discussione del merito alla pubblica udienza del 7 giugno 2017, allorché è stato introitato a decisione.
14. Il Collegio ritiene preliminarmente di dover precisare che, limitatamente alla domanda di annullamento, esso va dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, per quanto dichiarato da parte ricorrente nell’atto depositato il 7 aprile 2011.
15. Resta da decidere la domanda risarcitoria, in relazione alla quale il Collegio deve pregiudizialmente verificare la propria giurisdizione, tenuto conto del fatto che viene in considerazione una ipotesi di occupazione di terreno privato non assistita da decreto di esproprio o decreto che ha disposto la occupazione d’urgenza, finalizzata però alla realizzazione di un’opera pubblica.
15.1. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, già con sentenza n. 2688/2007, hanno affermato il principio, in seguito sempre ribadito (si veda ancora la pronuncia di Cassazione civile, sez. un., 23/03/2015, n. 5744), secondo cui “In materia espropriativa, sussiste la giurisdizione del Giudice Amministrativo nei casi in cui l’occupazione e la irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute anche in assenza o a seguito dell’annullamento del decreto di esproprio ma in presenza di una dichiarazione di pubblica utilità, anche se questa sia poi stata annullata in via giurisdizionale o di autotutela (c.d. occupazione usurpativa spuria)” , mentre spetta al Giudice Ordinario la giurisdizione nei casi in cui l’occupazione e la irreversibile trasformazione del fondo siano avvenute in assenza della dichiarazione di pubblica utilità e nelle ipotesi di sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità (fattispecie di c.d. occupazione usurpativa pura”. Nel caso che occupa l’Amministrazione comunale ha approvato il progetto esecutivo di ampliamento e sistemazione della strada con delibera di Giunta Municipale del 28 agosto 2007, e tale progetto, ai sensi dell’art. 12 comma 1 lett. a) del D.P.R. n. 327/2001, equivale a dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Inoltre, ai sensi di quanto previsto dal combinato disposto dei comma 3 e 6 dell’art. 13 del D.P.R. 327/2001, la dichiarazione di pubblica utilità ha una efficacia di cinque anni, dal che consegue che le opere realizzate nel predetto periodo di tempo debbono ritenersi assistite da una valida dichiarazione di pubblica utilità.
15.2. Nel caso di specie i lavori sono iniziati nel 2008 e portati a termine nel 2009: pertanto si versa certamente in una ipotesi di occupazione “appropriativa”, e non già “usurpativa”, con conseguente sussistenza della giurisdizione del Giudice Amministrativo sulla domanda risarcitoria formulata da parte ricorrente, la quale nella memoria depositata il 22 dicembre 2016 ha precisato le conclusioni chiedendo il riconoscimento del danno: a) rapportato al periodo di illegittima occupazione del terreno e da quantificarsi in misura corrispondente agli interessi legali sul valore del bene; b) all’equivalente del valore della porzione di terreno illegittimamente occupata: sul punto parte ricorrente invoca espressamente l’insegnamento di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 735/2015, secondo la quale la perdita della proprietà di un bene, a carico di un privato, può verificarsi anche in dipendenza della c.d. rinunzia abdicativa al diritto dominicale, rinunzia che può anche ravvisarsi mediante la richiesta di tutela risarcitoria.
16. Prima di passare alla disamina del merito delle domande formulate dalla ricorrente, il Collegio ritiene opportuno ripercorrere, sia pure per sommi capi, la giurisprudenza venutasi a formare nel corso degli ultimi decenni con riferimento alla sorte della proprietà dei fondi privati occupati da una pubblica amministrazione per la realizzazione di opere di pubblica utilità, con riferimento ai casi in cui detta occupazione non sia stata seguita dalla emissione, nei termini di legge, del decreto di esproprio.
16.1. Con la storica sentenza della Corte di Cassazione n. 1464/1983 si inaugurò l’orientamento giurisprudenziale che annetteva alla irreversibile e totale trasformazione di un fondo connessa alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità la acquisizione della proprietà del sedime interessato in capo alla Pubblica Amministrazione committente tale opera. Detto istituto, di pura creazione pretoria, è stato denominato nel corso del tempo prima accessione invertita e poi occupazione acquisitiva o appropriativa o espropriativa; esso si fondava, secondo l’originario disegno di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 1464/83, poi confermato dalla sentenza, sempre delle Sezioni Unite, n. 12546 del 1992, sulla constatazione che laddove la realizzazione di un’opera pubblica implichi una irreversibile trasformazione del fondo privato, l’originario diritto di proprietà sullo stesso viene totalmente svuotato e dunque si estingue; contestualmente la azione manipolatrice-distruttrice della Amministrazione crea un quid novi di cui la Amministrazione medesima acquista la proprietà a titolo originario, con esclusione, dunque, di una fattispecie di tipo traslativo; al proprietario privato del suo diritto per effetto della azione manipolatrice-distruttrice della Amministrazione, è dovuto un risarcimento del danno.
16.2. Nel contesto di questo orientamento il titolo in base al quale la Amministrazione acquisiva la proprietà del bene risultante dalla sua azione manipolatrice/distruttrice del fondo privato, non è sempre stato individuato in modo univoco: dall’originario richiamo all’istituto della accessione di cui all’art. 938 c.c., effettuato nella ricordata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la Giurisprudenza è poi passata attraverso il richiamo all’istituto della usucapione, alla tesi dell’attrazione dell’opera al regime dei beni pubblici per giungere a fondare l’acquisto della proprietà del fondo e dell’opera pubblica sullo stesso realizzata in virtù del collegamento tra l’opera e la dichiarazione di pubblica utilità. Allo stesso modo non era univocamente individuata la causa della perdita del diritto di proprietà in capo al privato, che infatti già la sentenza della Corte di cassazione, Sez. II, n. 3872 del 4 aprile 1987 affermava permanere, nonostante l’irreversibile trasformazione ed utilizzazione del bene, sino a che il privato non avesse chiesto a titolo risarcitorio il valore integrale dell’immobile, esprimendo in tal modo la volontà di abbandonare il diritto di proprietà del suolo in favore dell’occupante.
16.3. Si deve ricordare, peraltro, che a partire dalla metà degli anni Novanta la Cassazione (Sez. I n. 12841 del 15.12.1995; SS.UU. n. 1907 del 4.3.1997; n. 148 del 10.01.1998), anche per il fatto che l’art. 5 bis della L. 359/92 fissava l’indennizzo per le occupazioni illegittime “per causa di pubblica utilità”, ha cominciato a distinguere i casi in cui la attività manipolatrice del fondo privato, da parte della amministrazione, risultava assistita da una precedente dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e quelli in cui una tale dichiarazione mancava ab origine o era venuta meno successivamente, stabilendo che in questa seconda fattispecie, poi denominata “occupazione usurpativa”, non sussistevano gli estremi per ritenere operante il meccanismo acquisitivo del bene realizzato dalla amministrazione, che non poteva dirsi rispondente a fini pubblici; conseguentemente e correlativamente neppure si verificava l’effetto estintivo del diritto di proprietà del privato, che poteva chiedere la restituzione del bene. Con riferimento alle fattispecie in esame, allora, la perdita della proprietà in capo al privato si determinava non per effetto dello “svuotamento” del diritto bensì per effetto della (eventuale) domanda risarcitoria con la quale il privato chiedeva di essere risarcito del valore del terreno, stante che una simile domanda conteneva e comportava una implicita rinuncia al diritto dominicale con valenza meramente abdicativa e non traslativa del diritto, dovendosi conseguentemente escludere che effetto automatico di tale rinuncia fosse costituito dall’acquisto del fondo in capo all’ente pubblico occupante (Cass. Civ. Sez. I n. 9173 del 3.05.2005, che ha escluso - essendo la rinuncia alla proprietà atto abdicativo e non traslativo - che vi fosse contraddizione tra le statuizioni del giudice di merito di riconoscere, per un verso, al proprietario il risarcimento integrale per la perdita della proprietà e di negare, per altro verso, l'acquisizione della proprietà stessa in capo all'ente pubblico occupante; Cass. Civ. Sez. I n. 184 del 18.02.2000; n. 6515 del 16.07.1997). Ed in tal caso il risarcimento, proprio perché non collegato alla necessità di realizzare una finalità pubblica, doveva essere liquidato secondo i criteri ordinari, e non secondo i criteri indicati dall’art. 5 bis della L. 359/92, avuto riguardo alla circostanza che la avvenuta realizzazione dell’opera pubblica da parte della amministrazione occupante comportava una tale ed irreversibile trasformazione del fondo da far ritenere di fatto il bene originario irrecuperabile: si legge infatti nella storica sentenza della Suprema Corte n. 1907/1997 che “poiché la valenza restitutoria dell'azione del privato potrebbe trovare ostacolo o nell'eccessiva onerosità di essa per il debitore (art. 2058, comma 2, c.c.) o nel pregiudizio per l'economia nazionale (art. 2933, comma 2 c.c.) come espressamente rilevano le S.U. nella sentenza 3963/89, o essere irragionevolmente antieconomica a cagione della irreversibilità - anche soltanto materiale - della trasformazione del fondo, non si vede perché il privato non dovrebbe essere ammesso a formulare la sua pretesa in termini di risarcimento del danno per la perdita del bene”. E’ dunque importante sottolineare e ricordare, ai fini di quanto infra si dirà, che storicamente la ragione per cui al privato è stata riconosciuta la possibilità di chiedere, in caso di occupazione non preceduta da valida dichiarazione di pubblica utilità, una tutela risarcitoria per equivalente commisurata al valore venale del bene, anziché la sola tutela restitutoria, riposa sul fatto che in allora la giurisprudenza riteneva che la manipolazione del bene connessa alla realizzazione dell’opera da parte della Amministrazione pubblica ne comportasse la inutilizzabilità, e quindi, in sostanza, la perdita.
16.4. Il ricordato orientamento giurisprudenziale si è consolidato ed ha trovato costante applicazione per circa un ventennio, durante il quale il legislatore non è mai intervenuto riconoscendo esplicitamente ed in via generale, alla fattispecie in esame, valenza acquisitiva della proprietà del bene in favore della Amministrazione “occupante” e tanto meno valenza estintiva del diritto di proprietà del privato.
16.4.1. Con l’art. 3 della legge n. 458/88, il legislatore ha riconosciuto che “ il proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene”; l’art. 11, comma 5 e 7 della L. 413/91 ha stabilito che il risarcimento conseguito dal privato in dipendenza di “occupazioni illegittime”, concorre alla formazione del reddito imponibile ai fini IRPEF; l’art. 10 del D.L. 444/95 ha previsto per gli enti locali e loro consorzi la possibilità di chiedere mutui alla Cassa Depositi e Prestiti “a copertura dei maggiori oneri ricadenti sui bilanci………… in dipendenza dell'acquisizione di aree per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di altre opere pubbliche dichiarate di pubblica utilità..”; l’art. 3, comma 6, della L. 662/96 ha introdotto nel corpo dell’art. 5 bis del D.L. 333/92, convertito nella L. 359/92, il comma 7 bis, che per la prima volta ha legislativamente disciplinato in via generale il risarcimento del danno dovuto al privato proprietario in dipendenza da “occupazioni illegittime”, disponendo che esso dovesse computarsi in ragione della media tra il valore venale del bene ed il coacervo del reddito dominicale degli ultimi dieci anni, maggiorato del 10%.
16.4.2. Ebbene: nessuna delle dianzi ricordate disposizioni menziona esplicitamente l’acquisizione della proprietà del sedime in capo alla Amministrazione “occupante” e l’estinzione del diritto di proprietà del privato quali effetti della fattispecie complessa risultante dalla occupazione del fondo privato, dalla illecita trasformazione dello stesso conseguente alla realizzazione di un’opera di pubblica utilità e dalla concorrente richiesta del privato di essere risarcito del valore del bene, da quegli non più utilizzabile; né, tampoco, le dianzi citate norme collegano il diritto del privato a conseguire il “risarcimento del danno” ad una manifestazione dello stesso di “abdicare” alla proprietà vantata sul fondo illegittimamente occupato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità. Ancora va sottolineato che tutte le ricordate norme – le quali, se il Collegio non è in errore, esauriscono il panorama delle norme che in qualche modo alludono alle fattispecie in argomento - non danno una chiara definizione del concetto di “occupazione illegittima” e non contengono una organica disciplina dell’istituto: sul punto merita sottolineare che anche l’art. 3 della L. 458/88, nel riconoscere il diritto del privato a conseguire il risarcimento del danno conseguente ad una procedura espropriativa illegittima, limita tale istituto alle sole espropriazioni finalizzate alla realizzazione di edilizia residenziale pubblica, ed alle ipotesi in cui sia già stato emanato un decreto di esproprio illegittimo; nelle ipotesi divisate da tale norma, dunque, l’acquisizione della proprietà del bene in capo alla amministrazione espropriante si collega ad un titolo ablativo tipico, e l’originalità della disciplina risiede piuttosto nel fatto che alla declaratoria di illegittimità del decreto di esproprio non ne consegue l’annullamento, spiegandosi così la mancata retrocessione del bene, espressamente vietata dalla norma. La Corte di Cassazione, per il vero, con la sentenza n. 735 del 19 gennaio 2015 - di cui si dirà infra –ha dato una diversa lettura della norma in esame, affermando che essa “presuppone evidentemente che alla trasformazione irreversibile dell'area consegua necessariamente l'acquisto della stessa da parte chi ha realizzato le opere”, ma come sopra precisato il Collegio non crede che questa possa essere l’unica lettura possibile, ritenendo invece che la mancata retrocessione – id est: restituzione – del bene nella specie consegue non già al fatto che esso è già stato, in precedenza, acquisito in proprietà in capo alla p.a., quanto piuttosto al fatto che è il legislatore a vietarlo.
16.4.2.1. Si consideri, del resto, che la stessa Corte di Cassazione SS.UU., con la sentenza n. 12546 del 25 novembre 1992, ha escluso che la fattispecie disciplinata dall’art. 3 della L. 458/88 possa riferirsi all’istituto della occupazione appropriativa, difettando alcuni requisiti fondamentali.
16.4.2.2. Va inoltre sottolineato che sino a che è stato in vigore, l’art. 3 della L. 458/88 ha sempre vietato la retrocessione delle aree illegittimamente espropriate per edilizia residenziale pubblica senza distinzione alcuna, e cioè sia nei casi di occupazione acquisitiva che usurpativa: si vuol dire, cioè, che ove fosse stato così chiaro il meccanismo estintivo/acquisitivo disegnato dalla ricordata giurisprudenza, il legislatore non avrebbe avuto necessità di tenere fermi gli effetti dei “provvedimenti espropriativi” indicati dalla norma, accertati illegittimi con sentenza passata in giudicato, stante che in tali casi avrebbe potuto agevolmente trovare applicazione il ricordato orientamento, implicante comunque l’acquisto della proprietà dell’opera pubblica e del sedime pertinenziale a favore della Amministrazione. Il legislatore, tra l’altro, non ha ritenuto di dover modificare la norma neppure dopo che, a partire dal 1997, la Corte di Cassazione ha escluso l’operatività del meccanismo estintivo/acquisitivo alle occupazioni “usurpative”, non assistite da valida dichiarazione di pubblica utilità: il Collegio si domanda allora per quale ragione il legislatore, all’indomani della ricordata precisazione giurisprudenziale, non abbia pensato di modificare l’art. 3 della L. 458/88 limitando la esclusione della retrocessione (e quindi il mantenimento in vita dei provvedimenti espropriativi illegittimi) alle sole occupazioni usurpative, giungendo alla conclusione che il legislatore stesso, per il quale l’edilizia residenziale pubblica costituiva evidentemente una assoluta priorità, ha ritenuto che gli interessi della amministrazione non potessero essere adeguatamente tutelati dall’istituto della “occupazione acquisitiva”, che di fatto non ha riconosciuto. L’art. 3 della L. 458/88 rappresenta dunque, ad avviso del Collegio, un indice della diffidenza e del non riconoscimento, da parte del legislatore, dell’istituto pretorio di cui si discorre: disconoscimento, dunque, sia della rilevanza della azione manipolatrice della amministrazione ai fini di determinare la estinzione del diritto di proprietà del privato, sia della eventuale volontà abdicativa del proprio diritto manifestata dal privato.
16.4.3. Nella ricordata pronuncia n. 735/2015 la Suprema Corte analizza le ulteriori norme sopra ricordate, da taluni reputate quale indice del recepimento, da parte del legislatore, dell’istituto della occupazione appropriativa, giungendo a conclusioni simili a quelle testé enunciate: l’art. 11, comma 5 e 7 della L. 413/91 è norma a valenza meramente fiscale; mentre l’art. 55 del D.P.R. 327/2001 - ma le medesime considerazioni valgono anche per l’art, 5 bis del D.L. 662/96 - è norma che “pur avendo storicamente presupposto una occupazione acquisitiva, non richiede necessariamente un contesto nel quale l'occupazione dia luogo all'acquisizione del terreno alla mano pubblica con esclusione (della) restituzione al proprietario. La norma, infatti, prende in considerazione il risarcimento del danno eventualmente spettante al proprietario in caso di illecita utilizzazione del suo terreno, ma non esclude affatto la possibilità di una restituzione del bene illecitamente utilizzato dall'Amministrazione. In altre parole, la disposizione in esame, sebbene vista in passato come copertura normativa dell'istituto creato dalla giurisprudenza, può e deve essere letta oggi come sganciata dall'occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse presente l'inciso "ove non abbia luogo la restituzionee non più, secondo la lettura data in precedenza, come se in essa fosse presente l'inciso "non essendo possibile la restituzione".
16.4.4. Di guisa che l’impressione che si trae è quella che il legislatore, lungi dal recepire a livello di diritto positivo l’istituto di creazione pretoria in argomento, abbia semplicemente inteso prendere atto della esistenza dell’orientamento giurisprudenziale che l’ha elaborato ed abbia voluto dotare le amministrazioni pubbliche di strumenti idonei a fronteggiare i debiti derivanti dalle condanne risarcitorie già pronunciate relativamente a fattispecie di “occupazioni illegittime” nonché a contenere l’entità delle condanne future fondate sulla stessa causale, nella consapevolezza che simili provvedimenti giudiziali avrebbero potuto ancora intervenire: conferma della valenza sostanzialmente “emergenziale” delle su ricordate norme si trae, del resto, anche dalla constatazione che esse sono per lo più contenute in testi di legge di valenza finanziaria, con la sola eccezione della L. 458/88, che però, come già precisato, ha un ambito di applicazione assolutamente limitato alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica.
16.4.5. E’ utile ancora ricordare che nella sentenza della Corte Costituzionale n. 369/1996 - che dichiarò la illegittimità costituzionale dell’art. 5 bis comma 6 del D.L. 333/92, siccome da interpretarsi, secondo il diritto in allora vivente, nel senso che la misura della indennità di esproprio ivi contemplata (semisomma del valore di mercato e del reddito dominicale, con riduzione del 40%, evitabile solo con la cessione volontaria del bene) dovesse applicarsi sia alle espropriazioni rituali che al risarcimento del danno dovuto in conseguenza di occupazioni illegittime – è richiamata “la natura innegabilmente risarcitoria delle conseguenze patrimoniali ricollegate dall'ordinamento all'attuarsi della occupazione privativa-acquisitiva o c.d. "accessione invertita" (che, in dipendenza della irreversibile destinazione del suolo occupato all'opera pubblica, spiega all'un tempo l'effetto estintivo, dell'originario diritto di proprietà, e quello acquisitivo, dell'immobile così trasformato, alla pubblica amministrazione): qualificazione, che è, in tali termini, ormai consolidata da tempo nella giurisprudenza della Cassazione ed in quella conforme dei giudici di merito; ha superato anche il vaglio di costituzionalità con la recente sentenza n. 188 del 1995, ed ha trovato parallela ricezione, infine, sul piano normativo, negli artt. 11, commi 5 e 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, e 10, co. 3- bis, del decreto-legge 27 ottobre 1995, n. 444 , convertito in legge 20 dicembre 1995, n. 539.”. E’ opinione del Collegio che con l’inciso in questione la Consulta ha inteso affermare che ciò che ha trovato esplicito riconoscimento nelle norme e precedenti giurisprudenziali citati non è l’istituto nel complesso, ossìa la valenza estintiva/acquisitiva della azione manipolatrice della Amministrazione posta in essere su fondi privati non ritualmente espropriati, quanto piuttosto la sola qualificazione in termini di risarcimento delle conseguenze patrimoniali che si determinano a favore del privato, leso dalla trasformazione del fondo: ciò spiega come la Corte Costituzionale abbia potuto menzionare le norme esaminate nei paragrafi che precedono, le quali – come si è visto - nulla dicono in ordine alla valenza estintiva/acquisitiva delle occupazioni illegittime, tra quelle che avrebbero recepito la qualificazione risarcitoria delle conseguenze patrimoniali ridondanti a carico della amministrazione responsabile della occupazione illegittima e della successiva azione manipolatrice. Si vuol qui sottolineare che le norme citate se incontestabilmente alludono ad una responsabilità risarcitoria, che peraltro non avrebbe potuto essere disconosciuta dal legislatore in quanto per definizione generata da un comportamento connotato da illegittimità, a prescindere dalla estinzione del diritto di proprietà del privato, d’altro canto nulla provano in ordine al recepimento dell’istituto da parte del legislatore. Quanto al richiamo alla sentenza n. 188/95 della medesima Corte Costituzionale, osserva il Collegio che in quella sede la Consulta era chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c. siccome interpretato dal diritto vivente, e cioé nella misura in cui accordava al privato proprietario, leso da una occupazione illegittima, un risarcimento conseguente ad un illecito istantaneo (e non permanente), soggetto pertanto ad una prescrizione quinquennale (e non decennale, non venendo in considerazione una obbligazione indennitaria), decorrente dal momento in cui si verificava la irreversibile trasformazione del fondo: la Corte Costituzionale in quella sede si è limitata a prendere atto – conformemente al proprio ruolo, che non è quello di interprete delle leggi – dell’orientamento giurisprudenziale in parola, costituente diritto vivente, dal quale ha tratto le debite conclusioni in ordine alle caratteristiche delle conseguenze di natura patrimoniale nascenti a favore del privato nonché in ordine alla conformità alla Costituzione di esse. Va sottolineato, dunque, che anche nella sentenza n. 188/95 la Corte Costituzionale ha esaminato solo i profili di natura patrimoniale che le occupazioni illegittime facevano sorgere a favore del privato proprietario, e che, ad ogni buon conto, Essa non ha espresso alcuna valutazione in ordine all’essere, l’indirizzo giurisprudenziale in parola, conforme, o meno, a Costituzione o ad altre norme dell’ordinamento giuridico.
16.4.6. Il Collegio reputa conclusivamente che l’orientamento giurisprudenziale dianzi esaminato - che attribuisce alle occupazioni illegittime di fondi privati seguite dalla realizzazione dell’opera pubblica, valenza contestualmente estintiva del diritto di proprietà del privato e acquisitiva di un diverso diritto a favore della Amministrazione – ha costituito certamente diritto vivente sino alla prima metà degli anni 2000, ma non ha ricevuto alcun avallo diretto a livello normativo, essendo anzi contraddetto dall’art. 3 della L. 458/88, come sopra interpretato.
17. Nel contesto del ricordato orientamento giurisprudenziale si è inserito l’art. 43 del D.P.R. 327/2001, entrato in vigore il 30/06/2003, il quale sottendeva il principio per cui il diritto di proprietà, sul fondo illegittimamente occupato ed utilizzato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità, può estinguersi, in mancanza di decreto di esproprio o di cessione spontanea, solo per effetto del decreto di acquisizione contemplato dalla norma, la quale costituiva, a livello di diritto positivo, una risposta concreta del legislatore italiano all’orientamento assunto in materia dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
17.1. Quest’ultima, pronunciatasi su molti casi di occupazione acquisitiva, ha affermato che la perdita della proprietà al di fuori di uno schema ablatorio-espropriativo legislativamente disciplinato, pur se finalizzata a scopi di pubblica utilità deve ritenersi illegittima in quanto non consente al cittadino di prevedere il risultato e così di aver contezza della vicenda, dal momento che gli effetti che derivano dalla occupazione diventano palesi solo con la sentenza che definisce il procedimento. Il meccanismo della occupazione acquisitiva (o appropriativa), quindi, secondo la Corte Europea dei Diritti Umani integra(va) una illegittima compromissione del diritto di proprietà nonché violazione dell’art. 1 del protocollo addizionale n. 1: in conseguenza di ciò lo Stato è tenuto a risarcire il cittadino leso per effetto di tale comportamento consumato ai suoi danni, preferibilmente mediante restituzione del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità (sentenza Carbonara e Ventura c. Stato Italiano), ovvero a mezzo di risarcimento per equivalente tale da eliminare totalmente le conseguenze subìte in esito alla occupazione illegittima.
17.2. La fermezza con la quale la Corte di Strasburgo ha continuato a denunciare la contrarietà della occupazione acquisitiva alla Convenzione E.D.U. ha indotto il legislatore italiano a porre rimedio alla situazione venutasi a creare, e tanto mediante l’introduzione, nel T.U. Espropriazioni, dell’art. 43 sopra ricordato, il quale, sul presupposto che la perdita della proprietà in capo al privato non può, nelle ipotesi in esame, collegarsi se non ad un atto di natura consensuale o autoritativa ( fatti salvi gli effetti della usucapione ordinaria), introduceva un meccanismo finalizzato, per così dire, a mettere ordine in tutte quelle situazioni caratterizzate dalla sostanziale perdita della disponibilità del bene in capo ad un privato, a favore di una pubblica amministrazione che lo utilizzava per scopi di pubblica utilità senza averne acquisito la proprietà nei modi ordinari. Così, nel sistema delineato dall’art. 43, in presenza di determinate condizioni la Pubblica Amministrazione “che utilizza(va) il bene” poteva emettere il decreto di acquisizione “sanante” previsto dal comma 1, dal quale soltanto derivava il trasferimento di proprietà del bene a favore della Pubblica Amministrazione procedente. E l’eventuale richiesta di restituzione del bene, formulata dal privato in sede giudiziale, secondo quanto esplicitamente previsto dall’art. 43 avrebbe potuto essere bloccata solo da una richiesta della Amministrazione, rivolta al giudice della causa, di disporre il risarcimento del danno con esclusione della restituzione senza limiti di tempo: in particolare, secondo quanto previsto dal comma 4 dell’art. 43, in tale eventualità “l’autorità che ha disposto l’occupazione dell’area emana l’atto di acquisizione, dando atto dell’avvenuto risarcimento del danno….”.
17.3. L’art. 43 presupponeva, dunque, la perdurante sussistenza e sopravvivenza del diritto di proprietà privata; correlativamente l’acquisizione di esso a favore della Amministrazione interessata era collegata unicamente alla emissione del decreto di acquisizione sanante, al punto che in mancanza di esso ed in conseguenza della condanna risarcitoria il giudice della causa doveva escludere la restituzione senza limiti di tempo. Dunque, anche la domanda risarcitoria formulata dal privato doveva ritenersi inidonea a determinare l’estinzione del proprio diritto, segnatamente quale effetto di un atto di natura abdicativa.
17.4. Tali principi, già enunciati nella relazione della Adunanza Generale del Consiglio di Stato 29/03/2001, sono poi stati ribaditi dalla sentenza della Adunanzia Plenaria n. 2/05, e dipoi richiamati anche dalla sentenza della sezione IV n. 2582 del 21/05/2007.
17.5. Come noto, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 293 dell’8 ottobre 2010 ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 43 del D.P.R. 327/2001. Tale pronuncia - che tra l’altro ha richiamato l’orientamento del Consiglio di Stato di cui alle pronunce della Sez. IV, 26 marzo 2010, n. 1762 e 8 giugno 2009, n. 3509, della Ad. Plen. 29 aprile 2005, n. 2 e della Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830, da considerarsi “diritto vivente”, secondo il quale la norma in questione doveva ritenersi applicabile a tutte le occupazioni illegittime ed a tutte le procedure di acquisizione in sanatoria, ancorché relative ad occupazioni poste in essere prima della entrata in vigore del D.P.R. 327/2001 - è pervenuta alla declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 citato per eccesso di delega, rilevando che nella legge delega, n. 59 del 1997, non era dato rinvenire alcuna disposizione che legittimasse il legislatore delegato ad introdurre nell’ordinamento interventi volti a sanare difetti delle procedure ablative già intraprese; che la “acquisizione sanante”, così come congegnata dalla norma censurata, in realtà non risultava affatto coerente con gli orientamenti di giurisprudenza che, elaborando gli istituti della occupazione “acquisitiva” ed “usurpativa”, avevano cercato di porre rimedio alle gravi ed innumerevoli patologie riscontrate in un gran numero di procedimenti espropriativi; e che il legislatore delegato era dunque andato, con l’art. 43 del D.P.R. 327/2001, ben al di là del compito affidatogli e consistente nel mero “coordinamento formale relativo a disposizioni vigenti”. Né l’istituto disegnato dalla nuova norma poteva - secondo la Corte Costituzionale - giustificarsi con la necessità di adeguare l’ordinamento ai rilievi provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU, giurisprudenza che non imponeva affatto la adozione della soluzione in concreto adottata e che, inoltre, aveva già lasciato intendere di ritenere illegittima qualsiasi “espropriazione indiretta”- ancorché fondata su una norma, come l’art. 43 - “in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un'alternativa ad un'espropriazione adottata secondo «buona e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri c. Italia - Terza Sezione - sentenza 12 gennaio 2006 - ricorso n. 14793/02).” ; una simile procedura crea inoltre il rischio di un risultato arbitrario ed imprevedibile, in violazione del principio di certezza del diritto, e “tende a ratificare una situazione di fatto derivante dalle azioni illegali commesse dall’amministrazione, tende a risolverne le conseguenze a livello sia privato che amministrativo e permette all’amministrazione di trarre beneficio dal proprio comportamento illegale” (sentenza Dominici c/ Gov. Italiano n. 64111/00 del 15.11.2005).
17.6. Con D.L. n. 98/2011 è stato introdotto, nel corpo del D.P.R. 327/2001, l’art. 42 bis, il quale prevede la possibilità per “l'autorita' che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita'”, di “disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale…”: la norma precisa, inter alia,che “Il provvedimento di acquisizione puo' essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilita' di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione puo' essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira.”; l’art. 42 bis prevede inoltre che le relative disposizioni “..trovano altresi' applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi e' gia' stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualita' e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme gia' erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo”.
17.7. Il ricordato art. 42 bis, escludendo che l’acquisto della proprietà del sedime interessato possa verificarsi ex tunc, precisando che il ristoro economico dovuto al privato sia commisurato all’intero danno patrimoniale e non patrimoniale subìto dal privato, ed infine stabilendo che la relativa disciplina trova applicazione anche ai fatti anteriori alla entrata in vigore del D.L. 98/2011, ha inteso conformarsi alle indicazioni provenienti dalla Corte di Strasburgo, la quale, nella sentenza 06.03.2007 n. 43662/98 (Scordino c/ Italia), ha ribadito l’illegittimità della “espropriazione indiretta” ed ha indicato anche le misure idonee per conformarsi alle sue pronunce in materia e cioè: a) evitare occupazioni sino a che non siano stati approvati il progetto e gli atti espropriativi, verificando la copertura finanziaria per procedere ad un celere indennizzo; b) abolire gli ostacoli di carattere giuridico che impediscono la restituzione del bene trasformato, in assenza di decreto di esproprio; c) scoraggiare le pratiche non conformi, perseguendo anche i responsabili di tali procedure.
17.8. Ciò nonostante anche l’art. 42 bis è stato fatto oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 442/2014, hanno sottolineato che il provvedimento che dispone l’acquisizione ai sensi della norma censurata ha comunque valenza “sanante”, nel senso che legittima ex post una occupazione d’urgenza che non avrebbe mai dovuto aver luogo, integrando così uno strumento che autorizza la Amministrazione a non restituire il fondo illegittimamente occupato e/o a non ridurlo nello stato originario, e ciò anche a dispetto di un giudicato che abbia ordinato alla Amministrazione la restituzione del bene al privato. La Corte di Cassazione si è quindi interrogata sulla legittimità costituzionale di una norma che di fatto consente alla Amministrazione “di mutare, successivamente all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volontà, il titolo e l'ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione/ristoro (da risarcimento ad in indennizzo), stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere per qualunque soggetto dell'ordinamento”, pervenendo così alla “legalizzazione dell’illegale”, legalizzazione che “non è conclusivamente consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di legge, nè tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo, quale è quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci, 22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio 2006; De Sciscio, 20 aprile 2006; Dominici, 15 febbraio 2006; Serrao, 13 gennaio 2006; Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005; Scordino, 17 maggio 2005” .
17.8.1. Ha osservato in particolare l’ordinanza in esame che il principio di legalità non potrebbe ritenersi recuperato in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e privati devoluti dalla norma all'autorità amministrativa che dispone l'acquisizione, perché un tale bilanciamento di opposti interessi deve ritenersi ammissibile, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, solo allorché effettuati nel contesto di una procedura legittima e non arbitraria, ed inoltre perché l’art. 42 bis attribuisce il compito di effettuare siffatto bilanciamento di contrapposti interessi alla Amministrazione responsabile dell’illecito, chiamata ad effettuare una scelta unilaterale e fondamentalmente imprevedibile, con il risultato che anche il nuovo regime autorizza la compromissione della proprietà privata all’esito di un procedimento non caratterizzato da un sufficiente grado di certezza e prevedibilità. Inoltre il regime introdotto dall’art. 42 bis , essendo applicabile anche a fatti anteriori alla entrata in vigore della norma, finisce per influire sull’andamento di processi iniziati ed impostati secondo diversi presupposti normativi “sì da incorrere anche nella violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione "per il mutamento "delle regole in corsa": risultando sotto tale profilo in contrasto anche con l'art. 111 Cost., commi 1 e 2, nella parte in cui, disponendo l'applicabilità ai giudizi in corso delle regole sull'acquisizione coattiva sanante in seguito ad occupazione illegittima, viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di parità delle parti davanti al giudice, che risultano lese dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla risoluzione di una circoscritta e determinata categoria di controversie; ed appare, quindi, anche sotto questo profilo, nuovamente in contrasto con i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.).”. Infine le Sezioni Unite hanno rilevato che il sistema disegnato dall’art. 42 bis determinerebbe un differente trattamento tra proprietari vittime di analoghi comportamenti illeciti posti in essere da una Amministrazione pubblica, tra i quali proprietari quelli destinatari di un decreto di acquisizione sanante non potrebbero aspirare alla tutela restitutoria congiunta al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. e sarebbero destinatari di un indennizzo di misura addirittura inferiore all’indennizzo spettante in caso di espropriazione legittima, non soggetto a rivalutazione monetaria (in quanto connesso ad una obbligazione indennitaria di valuta e non ad una obbligazione risarcitoria di valore), con impossibilità di valorizzare la perdita di valore del fondo residuo che permane in proprietà al privato.
17.9. Con sentenza n. 71/2015, del 30 aprile 2015, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le varie questioni di legittimità costituzionale prospettate nei confronti dell’art. 42 bis, sottolineando: la differente disciplina di tale istituto rispetto a quello disegnato dall’art. 43; la necessità che il decreto che dispone l’acquisizione ex art. 42 bis sia motivato in modo stringente sia in ordine ai motivi imperativi di interesse generale che determinano la necessità di acquisire il bene, sia con riferimento alla impossibilità di ricorrere a soluzioni alternative; la decorrenza ex nunc della acquisizione, con conseguente impossibilità di adottare il provvedimento in esame quando la restituzione del fondo al privato sia già stata disposta con sentenza passata in giudicato. Per quanto di interesse ai fini della presente decisione va sottolineato che l’art. 42 bis ha superato il vaglio di legittimità costituzionale anche nella parte in cui esso prevede che la norma debba trovare applicazione a tutti fatti precedenti alla sua entrata in vigore: tale previsione implica, in guisa di presupposto logico, che secondo il legislatore tutte le occupazioni illegittime consumate prima del 6 luglio 2011 (data di entrata in vigore della norma), ancorché tradottesi in “irreversibili trasformazioni” del fondo privato o ancorché precedute da richieste risarcitorie giudiziali formulate dal privato con chiaro intento abdicativo, non possono avere l’effetto di estinguere il diritto di proprietà del privato, e proprio per tale ragione all’occorrenza possono essere sanate mediante l’adozione di un decreto di acquisizione sanante.
17.10. Si deve quindi riconoscere che allo stato attuale del diritto positivo la occupazione illegittima di un fondo per scopi di pubblica utilità, seguita dalla effettiva realizzazione di opere riconosciute di pubblica utilità, non solo non produce ex se, a favore della Amministrazione che ha occupato il fondo, l’acquisizione della proprietà dell’opera e del fondo sul quale l’opera insiste, ma neppure può essere all’origine della estinzione del diritto di proprietà vantato dal privato sul fondo oggetto di occupazione, ancorché nel frattempo questi abbia manifestato l’intenzione di volervi “abdicare”. Tutta la disciplina dell’art. 42 bis D.P.R. 327/2001 sottende infatti che il decreto di acquisizione “sanante” viene sempre emesso nei confronti del privato proprietario, e tale aspetto si evince, in particolare, dal comma 4, il quale stabilisce che “Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, e' specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto e' liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne e' disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto e' notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprieta' sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; e' soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed e' trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.”: ebbene, non si comprende quale logica possa giustificare il fatto che al decreto di acquisizione sanante si attribuisca la capacità di trasferire la proprietà e che poi esso sia invariabilmente, e senza eccezione alcuna, notificato al proprietario, subordinato al pagamento al medesimo del risarcimento e dipoi trascritto nei di lui confronti, se non per la ragione che il privato proprietario non ne perde mai la proprietà. Considerato poi che l’art. 42 bis non contiene una disciplina derogatoria o specifica con riferimento ai casi in cui il privato abbia precedentemente manifestato, in sede giudiziale o stragiudiziale, la volontà di rinunciare alla proprietà del bene, non si può che concludere che tutto l’art. 42 bis sottende che il proprietario il cui fondo sia utilizzato “per scopi di interesse pubblico” non perde la proprietà ancorché possa aver manifestato di non avervi più interesse.
18. Nonostante tutto quanto sopra rilevato sopravvive tuttavia, in giurisprudenza, l’affermazione secondo cui la domanda del privato che chieda in giudizio il risarcimento del danno conseguente ad una occupazione illegittima, commisurando il danno medesimo al valore del fondo oggetto di tale occupazione, deve qualificarsi come manifestazione della volontà di rinunciare alla proprietà del fondo: tale affermazione si ritrova, in particolare, proprio nella sentenza della Corte di Cassazione n. 735/2015, la quale, pur dopo essere giunta alla conclusione che l’espunzione della occupazione appropriativa dall’ordinamento giuridico, voluta dalla Corte Europea dei Diritti Umani, non si poneva in contrasto con il diritto positivo (difettando, per le ragioni sopra dette, indici normativi del recepimento di esso da parte del legislatore), ha affermato: “In conclusione, alla luce della costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell'Amministrazione si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all'Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni. In particolare, con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell'occupazione acquisitiva, viene meno la configurabilità dell'illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente. A tale ultimo riguardo, dissipando i dubbi espressi dall'ordinanza di rimessione, si deve escludere che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell'immobile rimasto nella sua titolarità. Infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. e plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28 marzo 2001, n. 4451 e Cass. 12 dicembre 2001, n. 15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte dell'Amministrazione (Cass. 3 maggio 2005, n. 9173; Cass. 18 febbraio 2000 n. 1814). La cessazione dell'illecito può aversi, infine, per effetto di un provvedimento di acquisizione reso dall'Amministrazione, ai sensi dell'art. 42 bis del t.u. di cui al D.P.R. n. 327 del 2001, con l'avvertenza che per le occupazioni anteriori al 30 giugno 2003 l'applicabilità dell'acquisizione sanante richiede la soluzione positiva della questione, qui non rilevante, sopra indicata al punto n. 4 della motivazione.”
19. Il Collegio non condivide l’affermazione, che si legge nella ricordata pronuncia, secondo cui “in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato (cfr. e plurimis, in tema di occupazione c.d. usurpativa, Cass. 28 marzo 2001, n. 4451 e Cass. 12 dicembre 2001, n. 15710); tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte dell'Amministrazione (Cass. 3 maggio 2005, n. 9173; Cass. 18 febbraio 2000 n. 1814)”.
20. Come sopra precisato la possibilità che un privato possa, nelle fattispecie di che trattasi, unilateralmente e legittimamente rinunciare alla proprietà del bene, acquisendo il diritto ad ottenere un risarcimento commisurato al valore venale del bene anche a prescindere dalla adozione di un decreto di acquisizione sanante, deve escludersi alla luce della disciplina positiva contenuta nell’art. 42 bis, di cui sopra si è dato conto.
20.1. Merita ricordare, a questo punto, che proprio con riferimento alla disciplina di cui all’art. 43 D.P.R. 327/2001 ed alla circostanza che essa – come l’art. 42 bis – risultava applicabile anche alle occupazioni pregresse, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 11096 del 11/06/2004, ha argomentato l’obbligo di “disapplicare” i principi giurisprudenziali formatisi in materia di occupazione appropriativa, a favore della sopravvenuta disciplina di cui all’art. 43 (in allora non ancora dichiarato incostituzionale), affermando che “La funzione giurisdizionale è necessariamente applicativa delle disposizioni vigenti (che il giudice interpreta con incondizionata autonomia, accertando e dichiarando la volontà della legge in relazione al caso concreto), per cui, se la legge muta o se, con un'ulteriore legge, viene attribuito a precedenti disposizioni un determinato significato, il giudice non può non essere vincolato dalla volontà del legislatore, anche perché le pronunce della Suprema Corte, se anche espressione della funzione nomofilattica, non possono assurgere a fonti di diritto, onde, con riguardo all'istituto dell'occupazione appropriativa, inizialmente affermatasi nell'applicazione giurisprudenziale, e successivamente regolata dalla legge, non è concettualmente configurabile un conflitto di attribuzione, per cui si debba investire la Corte costituzionale, fra potere giudiziario e potere legislativo, ne' è concepibile uno straripamento di quest'ultimo, per essere intervenuto a regolare un istituto di origine giurisprudenziale.” .
20.2. Orbene, il Collegio non vede per quale ragione questo cristallino ragionamento, che è espressione del ben noto principio secondo cui il giudice è sottoposto (solo) alla legge, che è tenuto ad applicare, non sia predicabile anche nel caso in esame, dovendosi già per questa via pervenire alla affermazione secondo la quale nelle fattispecie di occupazione appropriativa ed usurpativa l’eventuale rinuncia del privato alla proprietà del fondo è priva di qualsiasi effetto abdicativo o traslativo: a tale conclusione – si ribadisce – è d’obbligo pervenire a fronte della constatazione che il decreto ex art. 42 bis: a) può essere emesso a fronte di qualsiasi tipologia di “occupazione per scopi di pubblico interesse”, non prevedendosi alcun trattamento specifico per l’ipotesi in cui il privato abbia manifestato di voler rinunciare alla proprietà del fondo; b) non è prevista la possibilità che esso abbia come destinatario un soggetto diverso dal proprietario del fondo occupato né che esso possa avere effetti diversi da quelli traslativi della proprietà; c) richiede una motivazione che giustifichi la preminenza del pubblico interesse rispetto alle esigenze del privato proprietario, esigenze - queste ultime – che non avrebbe senso tenere in considerazione ove il privato avesse perso/potesse perdere la proprietà del bene con una semplice manifestazione unilaterale; d) può essere emesso anche con riferimento a occupazioni poste in essere in epoca anteriore alla entrata in vigore del D.P.R. 327/2001 o dello stesso art. 42 bis.
20.3. Non stupisce, del resto, che il legislatore possa aver consapevolmente inteso precludere al proprietario di rinunciare alla proprietà del fondo. Ove una tale rinuncia “abdicativa” fosse possibile e sortisse gli effetti preconizzati dalla giurisprudenza che qui si contesta, le amministrazioni pubbliche si troverebbero esposte al rischio di dover corrispondere un risarcimento commisurato al valore venale del bene occupato anche nei casi in cui il fondo stesso e l’opera che su di esso insiste non siano più rispondenti a “scopi di pubblico interesse”, poiché l’obbligo di corrispondere un tale risarcimento verrebbe in tal caso a dipendere unicamente dalla illegittima occupazione del fondo da parte della amministrazione e dalla unilaterale reazione del privato, prescindendo totalmente da valutazioni afferenti l’utilità pubblica del bene: orbene, pare evidente al Collegio che ove l’art. 42 bis dovesse essere letto nel senso che non include anche le situazioni in cui il privato abbia manifestato l’intenzione di rinunciare alla proprietà del bene esso si presterebbe a censure di incostituzionalità per manifesta irragionevolezza, stante l’evidente sottovalutazione dei danni alla finanza pubblica che un tale “vuoto normativo” potrebbe comportare, tanto più ove si consideri che la rinuncia “abdicativa” del diritto di proprietà manifestata dal privato non farebbe automaticamente acquisire la proprietà del fondo alla amministrazione occupante – particolare questo ben specificato nella pronuncia della Suprema Corte n. 735/2015 – e che dunque essa amministrazione sarebbe paradossalmente tenuta a corrispondere al privato un risarcimento commisurato all’intero valore venale del terreno senza, tuttavia, poterne acquisire contestualmente la proprietà.
20.4. Di contro, letto l’art. 42 bis nel senso che esso si applica, come già precisato, anche alle occupazioni che abbiano ad oggetto beni rispetto ai quali il proprietario abbia già manifestato una rinuncia “abdicativa”, esso risulta al riparo da censure di incostituzionalità: non solo perché le esigenze di finanza pubblica risultano salvaguardate dalla necessità che il decreto di acquisizione dia conto degli “scopi di pubblico interesse” ai quali l’acquisizione è funzionale, ma anche per la ragione che nel caso in cui l’amministrazione si risolva nel senso di non acquisire la proprietà del bene, questo va restituito ed al privato è dovuto il risarcimento riferito all’intero periodo di occupazione senza titolo, senza contare il fatto che in base al principio superficie solo cedit il privato si ritrova ad essere proprietario anche della opera pubblica che sul fondo insiste, la quale rappresenta un valore e che molte volte può essere sfruttata economicamente anche dallo stesso privato proprietario (l’attività di un ospedale o di una scuola, ad esempio, può anche essere esercitata da un soggetto privato, come anche privato può essere un parcheggio per auto aperto al pubblico; esistono persino casi di strade private, che attraversano proprietà interamente private, che collegano viabilità pubbliche e la cui percorribilità è consentita al pubblico previo pagamento di un pedaggio): l’opzione per la rimessione in pristino, spesso chiesta dai privati insieme alla restituzione, anche se riguardata solo dal punto di vista del privato – tralasciando cioè la valutazione dell’inevitabile spreco di risorse pubbliche che essa determina - non costituisce dunque una scelta necessitata né sempre avveduta.
20.5. Va peraltro sottolineato che la sentenza n. 735/2015 della Corte di Cassazione, di cui sopra si è dato conto e che viene espressamente invocata dalla ricorrente a fondamento della domanda risarcitoria, è stata pubblicata prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 71/2015, che ha dichiarato non fondate le censure di costituzionalità prospettate contro l’art. 42 bis, tra le quali v’era anche quella afferente la applicabilità della disciplina in esso contenuta anche alle occupazioni poste in essere in epoca anteriore alla entrata in vigore della norma nonché allo stesso D.P.R. 327/2001: tenuto conto del fatto che al punto 4 della motivazione la pronuncia citata sostiene che “l'art. 42 bis, non può essere individuato come la causa dell'espunzione dall'ordinamento dell'istituto dell'occupazione acquisitiva e si apre, invece, il diverso problema, non rilevante in questa sede, se per effetto dell'espunzione dell'istituto, determinata da una diversa causa, possa ipotizzarsi, alla stregua dei principi in tema di applicazione della legge ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed ai rapporti da tali fatti generati, un ampliamento temporale del campo di applicazione dell'art. 42 bis, che non troverebbe più il limite derivante da situazioni in cui è già avvenuta l'acquisizione alla mano pubblica, ma eventualmente il limite, da verificare, dell'irretroattività della nuova disciplina oltre la decorrenza da essa desumibile e come sopra individuata”, si deve credere che la pronuncia medesima, laddove ha affermato la possibilità che il privato può sempre rinunciare al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato con un atto a carattere abdicativo e non traslativo, si sia fondata su una interpretazione dell’art. 42 bis che ne escludeva l’applicabilità alle occupazioni anteriori alla sua entrata in vigore e che, pertanto, consentiva di salvaguardare le “rinunce abdicative” manifestate dai privati relativamente alle occupazioni pregresse. La possibilità di adottare il decreto di acquisizione sanante con riferimento a qualsiasi fattispecie di occupazione illegittima, futura o passata, connotata da una rinuncia abdicativa del privato o meno, consente invece di affermare che l’art. 42 bis ha definitivamente certificato l’impossibilità per il privato di rinunciare unilateralmente al diritto di proprietà di un fondo illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità, di guisa che la contraria opzione accreditata dalla sentenza n.735/2015 potrebbe e dovrebbe, all’attualità, ritenersi superata.
20.6. Del resto, ove così non fosse, e cioè ammettendo che in tali casi il privato possa ancora oggi sempre, ed efficacemente, rinunziare al proprio diritto di proprietà sull’immobile oggetto di occupazione – con le conseguenze gravissime di cui si dirà nei paragrafi 24, 25 e 26 – si finisce per attribuirgli un abnorme potere di determinare in via unilaterale e, soprattutto, non necessariamente prevedibile l’andamento della procedura e le sorti del bene occupato, e si tratterebbe di un potere squilibrato: perché foriero di gravi danni per la amministrazione occupante, la quale ciò nonostante nulla di concreto potrebbe opporre per bloccarlo, stanti gli effetti automatici ex lege che la rinunzia abdicativa produrrebbe. La situazione che si verrebbe/viene a creare, ammettendo la rinunzia abdicativa del privato alla proprietà del bene illegittimamente occupato, sarebbe quindi caratterizzata, questa volta a scapito della amministrazione, da quella stessa incertezza che ha indotto la Corte di Strasburgo a bocciare l’istituto della occupazione appropriativa e proprio tale constatazione induce il Collegio ad affermare che la rinunzia abdicativa alla proprietà su un bene immobile, quantomeno se riferita ad un bene illegittimamente occupato per scopi di pubblica utilità, non può essere consentita.
21. Ferme restando le dianzi esposte considerazioni, di per sé sufficienti a sostenere l’affermazione secondo cui gli atti di rinuncia ad una proprietà immobiliare sono privi di effetti allorquando abbiano ad oggetto fondi occupati illegittimamente per scopi di pubblica utilità, il Collegio ritiene che la domanda risarcitoria formulata dalla attrice possa essere respinta anche sulla base di ulteriori argomenti, ed in particolare per la ragione che la rinuncia abdicativa della proprietà immobiliare deve ritenersi dall’ordinamento giuridico non consentita, e come tale priva di effetti, non solo se manifestata in occasione ed in conseguenza di una occupazione illegittima posta in essere per scopi di pubblica utilità, ma anche a prescindere da una simile cornice fattuale, sempre che non ricorra una delle fattispecie specificamente previste dal Codice civile,
21.1. In particolare ritiene il Collegio che il contestato principio affermato da Cass. Civ. n. 735/2015 - che peraltro costituisce solo il precedente più recente, ma certamente non l’unico - non sia condivisibile perché, inesattamente ad avviso del Collegio, si fonda sull’esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa del diritto di proprietà su un immobile quale istituto di carattere generale.
21.2. La rinunzia c.d. abdicativa, é generalmente qualificata dalla dottrina come un negozio consistente nella dismissione di un diritto dal patrimonio del rinunciante: è un negozio unilaterale, perché il titolare del diritto se ne priva limitandosi a dismetterlo senza trasferirlo ad altri; è un negozio non recettizio, perché non ha un destinatario immediato e qualora produca un accrescimento del patrimonio di altro soggetto tale accrescimento non costituisce un effetto conseguente in via diretta alla manifestazione di volontà e non può essere lo scopo del rinunciante; ha efficacia immediata (salvo la presenza di condizioni) e, per questo, è normalmente irrevocabile (tranne la rinuncia all’eredità); opera ex nunc, comportando la dismissione di un diritto già acquistato.
21.3. Tali caratteri della rinunzia abdicativa sono stati ricavati dalla dottrina dallo studio delle figure tipiche di tale istituto, disciplinate dal codice civile: la rinuncia alla eredità, la rinuncia al credito, la rinuncia ad alcuni diritti reali minori espressamente contemplata dal codice civile, che invece non fa menzione della rinuncia al diritto di proprietà immobiliare.
21.4. Dalla rinunzia abdicativa si distingue, pertanto, la rinunzia c.d. traslativa, che comporta il trasferimento del diritto e che suppone l’esistenza di un contratto in quanto in tal caso la rinunzia costituisce il mezzo per effettuare a favore di un determinato soggetto, scelto dal rinunziante e non dalla legge, la traslazione di un diritto, traslazione che costituisce pertanto un effetto preveduto e voluto dal rinunziante..
21.5. Numerose sono le disposizioni del codice civile che fanno riferimento alla rinunzia: se ne parla con riguardo all'eredità e al legato (art. 478, 519 ss., 649, 650 c.c.), alle cause di estinzione dei diritti reali di godimento, specificamente in tema di enfiteusi (art. 963 c.c.) e di servitù (art. 1070 c.c.); la rinuncia è espressamente considerata dal legislatore in materia di garanzie dell'obbligazione (art. 1238, 1240 c.c.), di prescrizione e decadenza (art. 2937, 2968 c.c.), in materia di ipoteca (art. 2878, 2879 c.c.), di contratto di mandato (art. 1722, 1727 c.c.), e in materia di rapporto di lavoro (art. 2113 c.c. come novellato dall'art. 6 l. 11 agosto 1973, n. 533); la rinunzia “liberatoria” riferita alla proprietà immobiliare è poi ammessa dal codice civile nell’art. 1104, con riferimento ai diritti del comunista sulla cosa comune, nonché all’art. 882 c.c., con riferimento ai diritti di comproprietà sul muro comune; essa è invece espressamente esclusa dall’art. 1118 comma 2, con riferimento ai diritti del condomino sulle cose comuni.
21.6. Argomentando dalle su ricordate norme, in dottrina si è formato un orientamento, anche abbastanza sostenuto, che ammette la possibilità, per un privato, di esercitare la rinunzia abdicativa ai diritti di proprietà immobiliare non solo nelle ipotesi specificamente menzionate dal codice civile ma in qualsiasi situazione, facendo assumere all’istituto un carattere generale anche con riferimento alla proprietà immobiliare.
21.6.1. In particolare l’argomento principe utilizzato per ammettere la rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare fa leva sull’art. 827 c.c., il quale afferma che “I beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”, e che pertanto – secondo tale dottrina - implicitamente ammette che possano esistere beni immobili acefali, cioè privi di un proprietario. Questa dottrina fa anche leva sull’art. 1350 n. 5 e sull’art. 2643 n. 5. La prima norma contempla “gli atti di rinunzia ai diritti indicati ai numeri precedenti”, tra i quali figura anche il diritto oggetto di “contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”. L’art. 2643 n. 5 contempla invece “gli atti tra vividirinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti”, tra i quali figura, ancorquì, il diritto oggetto dei “contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili”. Tali norme sarebbero, secondo la dottrina in esame, ricognitive della generale possibilità riconosciuta dall’ordinamento, di rinunziare unilateralmente, con atto non traslativo e non recettizio, al diritto di proprietà su beni immobili, e tale manifestazione di volontà dovrebbe comportare che il bene immobile oggetto della rinunzia diviene acefalo per poi entrare a far parte, un istante dopo, del patrimonio dello Stato quale effetto ex lege, in virtù di quanto stabilito dall’art. 827 c.c.
21.6.2. Altra norma sulla quale fa leva la dottrina per ammettere, in via generale, la rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare sarebbe costituita dall’art. 1118 comma 2, il quale, escludendo che il condomino possa rinunziare ai suoi diritti sulle parti comuni, implicitamente sottenderebbe la possibilità di effettuare tale rinunzia, constatazione questa che spiegherebbe per quale ragione il codice avrebbe sentito la necessità di intervenire espressamente per escludere la rinunziabilità del diritto sulle parti comuni.
22. Non si può negare che il richiamo, effettuato dalle dianzi ricordate norme del codice civile, agli atti di rinunzia che hanno ad oggetto il diritto di proprietà su beni immobili è molto suggestivo; tuttavia a parere del Collegio esse non forniscono argomenti risolutivi che consentano di affermare l’esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa quale istituto di carattere generale, specialmente con riferimento ai beni immobili.
22.1. L’art. 1350 è la prima norma del capitolo che tratta specificamente “Della forma del contratto”, e quindi si riferisce ai contratti, cioè ad atti che per definizione intercorrono tra due o più persone: di conseguenza vi è motivo per credere che il n. 5 di tale disposizione si riferisca comunque ad accordi che abbiano ad oggetto atti di trasferimento di beni immobili, ai quali le parti rinunziano, con la conseguenza che alla rinunzia al diritto di proprietà su un immobile manifestata da una parte va a corrispondere il riacquisto, automatico, del diritto medesimo in capo al soggetto che prima l’aveva trasferito al rinunziante. Si tratterebbe dunque, più propriamente, di una rinunzia traslativa, alla quale le parti possono ricorrere sia in esecuzione della concordata risoluzione di un precedente contratto traslativo della proprietà su beni immobili – dalla quale consegue il venir meno delle obbligazioni contrattuali per entrambe le parti -, sia in esecuzione di una pattuizione che preveda il venir meno degli effetti del contratto precedentemente concluso per una sola delle parti, in questo caso del solo rinunziante
22.2. Considerazioni analoghe valgono per l’art. 2643 n. 5: nei numeri da 1 a 4 l’art. 2643 contempla infatti i “contratti” che abbiano ad oggetto determinati diritti reali, tra i quali anche la proprietà immobiliare; sembra quindi ragionevole supporre che il n. 5, richiamando “i diritti menzionati ai numeri precedenti” non intenda semplicemente richiamare i diritti in sé, ma i diritti nascenti da determinati contratti: tale considerazione conferma, ad avviso del Collegio che “gli atti travivi di rinunzia” di cui al n. 5 sono finalizzati, semplicemente, a far venir meno l’efficacia, in tutto o in parte, di precedenti contratti che hanno costituito, modificato o trasferito diritti reali immobiliari, conseguendo in particolare da tali atti di rinunzia che la proprietà su un certo immobile torna nella disponibilità del dante causa del rinunziante.
22.3. Gli articoli 1350 n. 5 e 2643 n.5, insomma, contemplano, ad avviso del Collegio, degli atti di rinunzia traslativa nonché, al limite, gli atti di rinunzia a diritti reali immobiliari espressamente disciplinati dal codice civile.
22.4. Tale lettura dell’art. 2643 n. 5 consente inoltre di superare le incongruenze che sono state rilevate, relativamente alla rinunzia a diritti immobiliari, rispetto a quelli che l’art. 2644 c.c. indica essere gli effetti conseguenti, e cioè: “Gli atti indicati nell’articolo precedente non hanno effetto riguardo ai terzi che a qualunque titolo hanno acquistato diritti sugli immobili in base ad un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione degli atti medesimi. Seguita la trascrizione, non può avere effetto contro colui che ha trascritto alcuna trascrizione o iscrizione di diritti acquistati verso il suo autore, quantunque l’acquisto risalga a data anteriore.”
22.4.1. E’ stato infatti osservato che, non essendo la rinunzia abdicativa un atto recettizio e comportando essa un acquisto ex lege a titolo originario, e non derivativo - a favore del soggetto di volta in volta indicato dalla legge (nudo proprietario, concedente, comproprietari pro-indiviso, lo Stato ex art. 827) -, a rigore non sarebbe stato necessario prevedere che la rinunzia ai diritti immobiliari fosse inopponibile ai terzi acquirenti in buona fede di diritti sugli immobili oggetto di rinunzia, sulla base di atti trascritti in data anteriore alla trascrizione della rinunzia stessa: venendo in considerazione un acquisto ex lege che si verifica automaticamente in conseguenza della rinunzia abdicativa, nessun eventuale atto dispositivo posteriore alla rinunzia potrebbe mai risultare opponibile all’ “acquirente ex lege”. Così, al fine di risolvere l’indicata incongruenza, autorevole dottrina ha ritenuto che la pubblicità della rinunzia ai diritti immobiliari troverebbe ragion d’essere sostanzialmente nella necessità di notiziare il terzo “acquirente ex lege” della avvenuta rinunzia e, quindi, dell’acquisto in suo favore.
22.4.2. A parere del Collegio, tuttavia, il tenore l’art. 2644 è chiaro nel sottendere un conflitto che possa essere generato e correlato all’atto di rinunzia; non può quindi trattarsi di norma “pensata”, semplicemente o anche, per pubblicizzare atti dai quali un simile conflitto non può conseguire. Si trae da ciò una ulteriore conferma del fatto che gli atti menzionati dall’art. 2643 n. 5 possono essere, in realtà: a) vuoi atti di rinunzia di natura traslativa e non abdicativa, previamente concordati tra le parti, costituenti in sé atti di disposizione rispetto ai quali è possibile concepire un possibile conflitto con eventuali terzi acquirenti; b) vuoi atti di rinunzia abdicativa ai diritti immobiliari specificamente indicati dal codice (diritti reali minori; comproprietà pro-indiviso), i quali non lasciano mai – come infra meglio si dirà – il diritto “acefalo”, determinando automaticamente l’accrescimento del patrimonio di terzi per effetto della c.d. elasticità della proprietà: è quindi possibile che tali atti di rinunzia possano generare un conflitto tra il rinunziante, e/o i creditori di costui, ed il terzo il cui diritto si espande automaticamente per effetto della rinuncia e/o i creditori di questo ultimo. L’art. 2643 n. 5 non fa, inoltre, alcun riferimento a specifici effetti conseguenti ad atti di rinunzia abdicativa.
22.4.3. Tutto ciò considerato il Collegio, anche in applicazione del canone interpretativo “in claris non fit interpretatio”, non crede che l’art. 2644 c.c. possa essere letto nel senso, che invero neppure é esplicitato, per cui la pubblicità degli atti di rinunzia abdicativa avrebbe valenza meramente informativa dell’acquisto a favore dell’acquirente ex lege. E del resto una simile interpretazione dell’art. 2644 c.c. rimane inevitabilmente frustrata dalla dottrina e dalla prassi notarile, che ritengono che la rinunzia abdicativa a diritti reali debba essere presa “contro” il rinunziante – il che appare cosa ovvia – ma “a favore” di nessuno, e ciò proprio sul presupposto che la rinunzia abdicativa di per sé stessa non determina l’accrescimento dell’altrui patrimonio, che eventualmente consegue quale effetto indiretto ex lege. Tale essendo il meccanismo della pubblicità immobiliare, segue che essa giammai potrebbe consentire ad un soggetto di verificare se il proprio patrimonio si sia accresciuto per effetto della rinunzia abdicativa ad un diritto reale da parte di un terzo soggetto (ad esempio - seguendo la prospettiva che qui si contesta - lo Stato in relazione alla proprietà immobiliare; il nudo proprietario con riferimento all’immobile gravato da usufrutto, uso, abitazione, servitù; il proprietario del fondo dominante con riguardo alla rinunzia liberatoria che abbia ad oggetto il fondo servente; il proprietario pro-quota indivisa con riguardo alla rinunzia di altro comproprietario alla rispettiva quota), il che conferma che verosimilmente il legislatore, quando ha prefigurato la trascrizione degli atti di rinunzia ai sensi dell’art. 2643 n. 5 c.c. pensava piuttosto ad atti di rinunzia traslativa o comunque ad atti di rinunzia dai quali conseguano immediati effetti ampliativi del patrimonio altrui, che dunque giustifichino una contestuale trascrizione “a favore” di un soggetto determinato e che possano ingenerare conflitti che possano trovare definizione in applicazione del principio “prior in tempore potior in jure”.
22.5. Dirimente non è, ad avviso del Collegio, neppure la previsione di cui all’art. 1118 comma 2 cod. civ.. Il fatto che la norma preveda espressamente che al condomino è vietato di poter rinunziare al suo diritto sulle cose comuni si spiega con il fatto che in materia di proprietà comune vige, in generale, il principio opposto, questo chiaramente enunciato all’art. 1104 comma 1: “Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”, principio che si trova ribadito anche dall’art. 882 comma 2 c.c. in tema di rinuncia alla comproprietà del muro comune. In giurisprudenza si è affermato (Cass. Civ. Sez. 2, Sentenza n. 3931 del 23/08/1978) che per effetto della c.d. “rinuncia liberatoria”, in esame, il bene immobile oggetto di rinunzia non rimarrebbe acefalo perché si determinerebbe l’automatico accrescimento del diritto dei comproprietari, sui quali, correlativamente aumenterebbe anche il carico delle spese relative alla manutenzione della cosa o del muro comune. Nel silenzio delle due norme si ritiene che tale forma di rinuncia sarebbe non recettizia e proprio per tale ragione l’accrescimento della proprietà dei comproprietari costituirebbe un effetto legale. Il Collegio nutre qualche perplessità in ordine al fatto che la rinuncia al diritto di comproprietà costituisca atto non recettizio. E’ fuor di dubbio, comunque, che l’accrescimento del diritto degli altri comproprietari si collega alla natura stessa della proprietà comune, che è una proprietà pro indiviso, la quale si estende all’intero bene, consentendo di fatto a ciascun “comunista” il godimento del bene nella sua interezza, sia pure con i limiti che derivano dalla necessità di assicurare anche agli altri comproprietari un godimento della medesima natura. Ad avviso del Collegio, allora, l’accrescimento del diritto dei comproprietari pro-indiviso, a fronte della rinunzia al proprio diritto manifestata da uno di essi costituisce un effetto naturale che si collega alla c.d. “elasticità” del diritto di proprietà, e proprio per tale ragione si tratta di una rinunzia che non crea alcun tipo di scompenso: il bene immobile non rimane “acefalo”, continuando ad identificarsi uno o più soggetti responsabili della custodia e delle obbligazioni di vario tipo connesse alla proprietà di quel bene.
22.5.1. Di conseguenza, il fatto che l’art. 1118 escluda, per il condomino, la possibilità di rinunciare al suo diritto sulle cose comuni nulla prova in ordine alla esistenza, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa della proprietà immobiliare anche al di fuori delle ipotesi espressamente disciplinate dal codice. Sembra chiaro, peraltro, che la disciplina di cui all’art. 1118 comma 2 si giustifica con il fatto che nel condominio di edifici i singoli proprietari neppure volendo possono sottrarsi all’uso di determinate cose comuni, tra le quali – come noto – rientrano le mura perimetrali, il tetto di copertura, il suolo sul quale sorge l’edificio, le scale ed i portoni di ingresso, e così via dicendo. Sarebbe dunque manifestamente ingiusto, oltre che foriero di gravi problematiche, se i vari proprietari delle singole unità immobiliari potessero a piacimento sottrarsi, mediante rinunzia al proprio diritto di comproprietà, all’obbligo di pagare le spese per la manutenzione di parti comuni, delle quali essi comunque sono obbligati ad usufruire: e che la ratio della norma sia questa è confermato dal fatto che l’art. 1118 u.c. consente ai singoli proprietari di scollegarsi dai soli impianti di riscaldamento e condizionamento centralizzati, del cui utilizzo essi possono effettivamente fare a meno.
22.6. Considerazioni simili possono svolgersi con riferimento a tutte le varie tipologie di rinunzia, che il codice civile ammette espressamente con riferimento ai diritti immobiliari, che in realtà esso non qualifica e che da molti sono ritenute di natura “abdicativa”, ma si tratta in realtà di una opzione non unanimemente condivisa.
22.6.1. Ai sensi dell’art. 963 c.c., è possibile rinunziare alla enfiteusi, ma solo quando il fondo perisca parzialmente: in tal caso, l’enfiteuta “secondo le circostanze può chiedere una congrua riduzione del canone o rinunziare al suo diritto, restituendo il fondo al concedente, salvo il diritto al rimborso dei miglioramenti sulla parte residua”, e l’esercizio della facoltà di rinunzia non è più possibile decorso l’anno. Il legislatore ha dunque limitato in maniera assai precisa la possibilità di rinunziare al diritto di enfiteusi, e tale constatazione, unita alla considerazione che l’enfiteusi è un istituto che persegue non solo l’interesse dell’enfiteuta ma anche quello del proprietario al miglioramento del fondo, induce ad escludere che l’enfiteuta possa abdicare al proprio diritto, come sostengono coloro che, invece, valorizzano anche le previsioni di cui all’art. 1350 n. 5 e 2643 n. 5.
22.6.2. La rinuncia all’usufrutto è specificamente menzionata dall’art. 2814 c.c., a mente del quale l’ipoteca costituita sul diritto di usufrutto perdura, nonostante la rinunzia, sino a che non si verifichi l’evento che avrebbe altrimenti prodotto l’estinzione dell’usufrutto: l’ammissibilità della rinunzia all’usufrutto, a prescindere da un atto di adesione del nudo proprietario, in questo caso poggia su una norma chiara, che sembra dare quasi per scontata tale eventualità; è dubbio tuttavia se si tratti di rinunzia abdicativa, poiché non vi è alcun indizio nel codice in tal senso; si può tuttavia rilevare che, anche se abdicativa la rinunzia, all’usufrutto non comporta per il nudo proprietario svantaggi assolutamente estranei alla di lui sfera giuridica o imprevedibili, e del resto, se per effetto della rinuncia all’usufrutto sul nudo proprietario tornano a gravare tutte le responsabilità ordinarie (per imposte, custodia, etc. etc.), tuttavia esse sono compensate dalla disponibilità dei frutti del bene. Dunque la rinunzia all’usufrutto, contrariamente alla rinunzia alla enfiteusi, non presenta particolari controindicazioni alla rinunzia, anche se abdicativa.
22.6.3. Quanto ai diritti di uso ed abitazione, la dottrina ne ammette la rinunzia proprio sulla constatazione che il codice ammette la rinunzia al più ampio diritto di usufrutto.
22.6.4. Discorso diverso va effettuato con riferimento alla servitù, dal momento che il – codice, mentre non menziona chiaramente la rinunzia alla servitù – se non indirettamente nei più volte citati articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5 – stabilisce invece espressamente, all’art. 1070, che il proprietario del fondo servente si può sempre liberare dall’obbligo di pagare le spese necessarie per l’uso o per la conservazione della servitù “rinunziando alla proprietà del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante”. In giurisprudenza ed in dottrina si trovano sia l’orientamento che ammette la rinunzia alla sola servitù ma solo in via bilaterale, sia l’orientamento che ammette anche la rinunzia alla servitù di natura abdicativa: in entrambi i casi si perviene ad ammettere la rinunzia alla servitù facendo leva, sostanzialmente, sulla considerazione che si tratta pur sempre di un diritto disponibile. Tuttavia a parere del Collegio, proprio il fatto che il legislatore ha disciplinato la diversa ipotesi di cui all’art. 1070 c.c. induce a dubitare della possibilità di rinunziare, quantomeno in via unilaterale, alla sola servitù: e la spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che la servitù non è posta e non esiste solo a vantaggio di un soggetto, bensì di un fondo, il quale, venendo meno la servitù, potrebbe risultare non più adeguatamente sfruttabile o rimanerne comunque svalorizzato. In questa prospettiva il fatto che il fondo servente venga “abbandonato” specificamente a favore del proprietario del fondo dominante consente di raggiungere, al medesimo tempo, sia lo scopo di sollevare il proprietario del fondo servente da un peso di duplice natura, sia quello di mantenere in buono stato manutentivo le opere attraverso le quali la servitù può essere esercitata, e, con esse, la godibilità del fondo dominante.
22.7. Il Collegio considera, a questo punto, che tutti i casi in cui il codice civile ha espressamente ammesso la rinunzia ad un diritto reale risultano accomunati dal fatto che a fronte della rinuncia la proprietà immobiliare non rimane “acefala”, perché in tali casi la rinunzia provoca l’estinzione del diritto reale minore e la correlativa riespansione della piena proprietà; ovvero, trattandosi di diritti reali minori in comunione, provoca l’accrescimento delle quote altrui sul diritto reale minore. In nessun caso, comunque, si viene ad avere un bene immobile privo di proprietario. Tutte queste fattispecie inoltre, in ultima analisi sono accomunate anche dal fatto che consentono una migliore gestione del bene immobile in tutti i casi in cui il titolare del diritto oggetto di rinunzia sia, per qualsiasi ragione, riottoso al pagamento delle spese necessarie per mantenere il bene immobile nelle condizioni ottimali: tanto si apprezza nella disciplina della rinuncia alla quota in comproprietà indivisa, alla rinuncia liberatoria alla proprietà del fondo servente, ed alla rinuncia alla enfiteusi, che peraltro è rigidamente disciplinata all’evidente fine di evitare che colui che si è impegnato a produrre un determinato miglioramento del fondo, possa sottrarsi a tale obbligo a piacimento. Solo la rinunzia all’usufrutto sembra derogare da questa logica; ma la realtà è che la rinuncia all’usufrutto - come del resto la rinuncia al diritto di piena proprietà su un bene – assume un senso solo ipotizzando che il titolare non voglia o non sia in grado di sopportare i pesi connessi al fondo, che la legge pone a carico dell’usufruttuario. E’ quindi ragionevole l’ipotesi secondo cui anche la rinunzia all’usufrutto è consentita dal legislatore per favorire la corretta gestione del bene immobile ogni qualvolta l’usufruttuario non voglia o non possa continuare a farsi carico del bene oggetto di usufrutto.
22.7.1. Perciò, in definitiva, il fatto che la rinunzia ai diritti reali sia espressamente ammessa dal codice civile solo con riferimento a taluni diritti reali ed alla quota di comproprietà indivisa, non consente di presumere che la rinunzia abdicativa ai diritti reali costituisca un istituto generale, disciplinato in talune situazioni solo per esplicitarne gli effetti, essendo molto più logica la contraria opzione, secondo la quale il legislatore avrebbe ammesso la rinunzia a diritti reali solo nei casi in cui essa risulta funzionale alla corretta gestione ed alla valorizzazione del bene immobile.
22.8. Le dianzi esposte considerazioni appaiono del resto coerenti con la funzione sociale che l’art. 42 della Costituzione assegna alla proprietà privata, la quale è riconosciuta a garantita a tutti i cittadini non solo per soddisfare bisogni egoistici ma anche per la soddisfazione di interessi generali: il mantenimento in buono stato di un bene immobile, dunque, costituisce non solo esplicazione delle facoltà inerenti alla proprietà, ma anche un dovere, la cui violazione, quando non ingeneri situazioni di per sé foriere di responsabilità, viene scoraggiata dal legislatore in vari modi: ad esempio con la possibilità di espropriare le relative aree per assicurarne la riconversione a nuovi utilizzi; oppure, più semplicemente, consentendo che altri acquisiscano la proprietà del bene per usucapione.
22.9. La ammissione generalizzata della possibilità di abdicare alla proprietà esclusiva, anche solo di tipo superficiario, di un bene immobile, va invece in segno diametralmente opposto, poiché non incoraggia i proprietari ad interessarsi e ad occuparsi in maniera diligente ed attiva dei beni, sul presupposto che di essi sarebbe sempre possibile disfarsi mediante una rinunzia abdicativa.
22.10 Ad avviso del Collegio neppure l’art. 827 c.c. offre validi e risolutivi argomenti a sostegno del recepimento generalizzato, nel nostro ordinamento, della rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare. Tale norma infatti, nella sua laconicità, sembra essere stata introdotta nel codice civile semplicemente quale disposizione di “chiusura”, ad evitare che possano esistere beni immobili acefali e come tali acquisibili per “occupazione” da parte di chiunque: del resto l’occupazione della res nullius è un modo di acquisto della proprietà valevole solo per i beni mobili (art. 923 c.c.) e tutta la disciplina codicistica riguardante i modi di acquisto della proprietà in realtà dimostra che il legislatore ha cercato di evitare le situazioni in cui beni immobili possano venire a trovarsi privi di un proprietario. In quest’ottica la previsione di cui all’art. 827 c.c. dovrebbe servire non già a far acquisire al patrimonio dello Stato la proprietà di una gran moltitudine di beni oggetto di rinunzia da parte dei rispettivi proprietari, bensì, unicamente a dare una proprietà a quei beni immobili rispetto ai quali non sia possibile risalire ai proprietari dai registri immobiliari e catastali ovvero a dare “copertura” a fattispecie imprevedibili ed estreme, non riconducibili ad alcuna delle ipotesi di acquisto della proprietà già previste dal codice: ad esempio il caso di emersione di una nuova isola in acque territoriali, che non è contemplata dagli articoli 922 e seguenti c.c., la cui proprietà è acquisita automaticamente al patrimonio dello Stato proprio in forza di quanto previsto dall’art. 827 c.c.
22.11. Ma soprattutto, contro l’argomento secondo il quale lo Stato recupererebbe automaticamente la proprietà dei beni immobili la cui proprietà sia stata abdicata dal proprietario, milita la considerazione che un tale sistema mal si concilia con la nozione moderna della proprietà privata, come diritto che ab origine è attribuito a cittadini privati, ad enti o allo Stato, risultando piuttosto coerente con quella concezione del diritto di proprietà –ancor oggi vivente nei paesi di common law e che negli Stati europei caratterizzava invece il diritto feudale della proprietà– secondo cui esso fa capo unicamente allo Stato o al suo rappresentante, potendo soggetti diversi goderne, sia pure per periodi lunghissimi e con amplissime facoltà, solo in forza di una sorta di concessione.
22.12. Del resto, salvo errore da parte del Collegio, l’unico caso in cui in giurisprudenza si è dato ingresso alla rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare è costituito proprio dalla rinunzia al bene illegittimamente occupato da una amministrazione per la realizzazione di un bene di pubblica utilità: tale orientamento, enunciato nella celebre sentenza della Corte di Cassazione n. 1907/1997, poggia sulla mera considerazione che il fatto che il privato non perda la proprietà del bene, laddove non risulti operante una valida dichiarazione di pubblica utilità, “non esclude peraltro la possibilità dell'interessato di avvalersi, come nella specie si è avvalso, di un'azione di risarcimento del danno per perdita definitiva del bene, ponendo in essere un meccanismo abdicatorio che non manca di riscontri nel nostro ordinamento positivo (artt. 1070, 1104, 550 c.c.).”, considerazione che al Collegio non pare frutto di una meditazione particolarmente approfondita.
23. 23. Il Collegio considera pertanto che dalle dianzi esaminate disposizioni non si trova alcun argomento “forte” che confermi, al di fuori delle ipotesi tipiche disciplinate dal codice civile, la possibilità di rinunciare al diritto di proprietà su di un bene immobile senza che contestualmente tale diritto non si trasferisca o non si consolidi in capo a terzi quale effetto voluto dal rinunziante (e non dalla legge). Al contrario si constata che né tali norme, né altre che disciplinano la forma e la pubblicità degli atti e negozi giuridici, prevedono espressamente la rinunzia unilaterale al diritto di proprietà su un bene immobile.
24. Il Collegio si chiede, allora, per quale ragione, ove la rinunzia abdicativa alla proprietà di un bene immobile, intesa come negozio unilaterale non recettizio, costituisse un istituto generalmente ammesso nel nostro ordinamento, il legislatore non ha ritenuto di ammetterla esplicitamente e di disciplinarla espressamente, tenuto conto del fatto che se ammissibile essa sarebbe, per lo Stato, causa di acquisto della proprietà di beni immobili di incidenza infinitamente maggiore rispetto ai casi disciplinati agli articoli 922 e seguenti, e considerato altresì il fatto che la proprietà di beni immobili, ed in special modo di fabbricati, comporta una responsabilità per custodia che il Collegio dubita fortemente il legislatore abbia inteso addossare allo Stato mediante la previsione di cui all’art. 827 c.c., senza ulteriori e più specifiche norme e senza che l’Amministrazione statale abbia la possibilità di esprimere il proprio consenso né di venirne a conoscenza: si pensi alla responsabilità legata alla proprietà di un terreno franoso che sia prospiciente una via pubblica o un centro abitato; o la responsabilità connessa alla proprietà di un edificio in stato fatiscente, che possa crollare sulla via pubblica o all’interno del quale chiunque possa penetrare; responsabilità che l’Amministrazione statale farebbe fatica a prevenire, avuto riguardo al fatto che - come già precisato – la trascrizione della rinunzia abdicativa sarebbe verosimilmente eseguita solo “contro” il rinunziante ma non anche “a favore” dello Stato, che pertanto non sarebbe neppure in grado di venire a conoscenza di eventuali nuovi “acquisti” verificando periodicamente le trascrizioni “a favore”. Salvo sostenere che, proprio per tale ragione, lo Stato è impossibilitato ad esercitarne la custodia in maniera diligente, con il risultato paradossale che tutto questo patrimonio immobiliare continuerebbe, lecitamente, a rimanere incustodito, improduttivo ed inutilizzato, fatiscente e fonte di pericolo per la incolumità pubblica.
25. Si consideri ancora che la rinunzia abdicativa alla proprietà immobiliare comporterebbe il venir meno, in capo al privato, dell’obbligo di pagare le varie imposte (fondiarie, imu, tari, etc. etc.) collegate alla proprietà del bene oggetto di rinunzia, evenienza, questa, che ugualmente si può dubitare fortemente costituisca una conseguenza preveduta ed accettata dal legislatore quale effetto dell’enunciato contenuto nell’art. 827.
26. Né si può trascurare di rilevare che gli effetti conseguenti alla dottrina di cui sopra si è dato conto risultano, se possibile, ancor più paradossali e dannosi proprio con riferimento alle occupazioni illegittime, per la già accennata ragione che, ammettendo in dette fattispecie che il privato abbia la possibilità di rinunziare alla proprietà vantata sul bene occupato divenendo contestualmente titolare del diritto ad essere risarcito del valore venale dell’immobile, si finisce per gravare l’amministrazione “occupante” di un obbligo risarcitorio al quale però non fa da contraltare l’acquisto della proprietà del bene, il quale, per effetto di questa rinunzia “atipica”, passerebbe invece a far parte del patrimonio dello Stato ex lege, ai sensi dell’art. 827 c.c.:. Vale la pena precisare, sul punto, che non vi sono ragioni per pensare che tale norma alluda allo “Stato” inteso come insieme delle Amministrazioni pubbliche che ne sono espressione, derivazione o che comunque coesistono sul territorio nazionale. Infatti, anche in altri casi, e con riferimento a settori in cui non si dubita che la norma alluda allo Stato-persona, il codice civile lo indica semplicemente come “Stato” (ad es. all’art. 586) senza ulteriori specificazioni; in giurisprudenza, inoltre, la norma è stata interpretata nel senso che essa allude al patrimonio dello Stato (persona) e non di altre Amministrazioni pubbliche (cfr. Cass. Civ. n. 2862/95). Infine merita ricordare che con l’art. 1 comma 260 della L. 296/2006 il legislatore ha confermato la spettanza allo Stato (persona) dei beni “vacanti” e di quelli relativi alle eredità giacenti, stabilendo che con decreto interministeriale (peraltro ad oggi non ancora emanato) dovessero essere indicati i criteri utili ad individuare tali beni.
26.1. Risulta quindi non condivisibile quanto afferma la pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4636 del 7 novembre 2016, secondo la quale “Con riferimento alla specifica ipotesi in cui il proprietario formuli non già domanda di restituzione ovvero di riduzione in pristino del proprio bene illecitamente occupato dall'amministrazione, bensì di risarcimento del danno patito (con effetti abdicativi del diritto di proprietà), muovendo da tali principi, occorre ancora affermare che: a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell'atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l'amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno - rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto - costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all'amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia”: non è condivisibile, a tacer d’altro, per l’intrinseca contraddizione insita nell’affermazione secondo cui la rinunzia avrebbe carattere abdicativo e tuttavia l’acquisto del bene oggetto di rinunzia dovrebbe avvenire in capo alla amministrazione che liquida il danno, e cioè alla amministrazione occupante, e non già in capo allo Stato.
26.1.1.Infatti - si ricorda - la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha sempre qualificato la rinunzia del privato alla proprietà del bene occupato come rinunzia abdicativa, ma da essa consegue – secondo la ricostruzione che qui si avversa - che il bene occupato a seguito della rinunzia rimane per un istante senza proprietario, res nullius per poi entrare nel patrimonio dello Stato, e non già nel patrimonio di altra amministrazione; e la stessa sentenza della Corte di Cassazione n. 735/2015 afferma espressamente che l’amministrazione occupante non acquista il bene occupato per effetto della rinunzia, trattandosi di rinunzia abdicativa e non traslativa.
26.1.2. 26.2.1. Quanto affermato dal Consiglio di Stato nella sopra ricordata pronuncia risulta dunque non condivisibile non solo perché, in conformità con l’orientamento in questo momento prevalente, ammette la possibilità di esercitare la rinunzia abdicativa della proprietà immobiliare anche al di fuori dei casi ammessi dal codice civile, ma prima ancora perché afferma, erroneamente ad avviso del Collegio, che la proprietà del bene rinunziato viene acquisita in capo alla amministrazione occupante.
26.2. La giurisprudenza, sia della Corte di Cassazione che quella del Consiglio di Stato, non sembra essersi interrogata circa le incongruenze che derivano dall’ammettere che il privato possa rinunziare unilateralmente al proprio diritto di proprietà facendo conseguire da tale manifestazione di volontà l’obbligo della amministrazione occupante di risarcire il privato di un valore commisurato all’intero valore del bene.
26.2.1. Dal momento che l’amministrazione occupante non diventa proprietaria del bene non si comprende, anzitutto, per quale ragione essa debba corrispondere un danno commisurato all’intero valore venale del bene, stante che il bene stesso non viene distrutto. Sul punto mette conto sottolineare che a seguito della evoluzione di cui sopra si è dato conto e che ha portato a riconoscere che il privato non perde la proprietà del bene per effetto della trasformazione impressa dalla attività manipolatrice della amministrazione occupante, in giurisprudenza – soprattutto quella amministrativa – si è progressivamente consolidato il principio secondo cui la restituzione del bene deve ritenersi sempre possibile, e doverosa, perché in realtà nulla, se non fattori di natura meramente economica, impedisce il ripristino del bene allo stato originario e la restituzione di esso (C.d.S. Sez. IV, n. 1466/2015, punto 2.1., con la giurisprudenza ivi richiamata; C.d.S., Sez. IV - sentenza 2 settembre 2011 n. 4970; C.d.S. Sez. IV - sentenza 15 settembre 2014, n. 4696; C.d.S. Sez. IV - sentenza 29 aprile 2014, n. 2232). Né si deve trascurare di considerare che il privato, rimanendo proprietario del fondo occupato diventa automaticamente proprietario anche dell’opera che su di esso è stata realizzata, opera che il più delle volte può essere sfruttata economicamente anche da privati e che pertanto costituisce per il privato una fonte di arricchimento, più che di impoverimento. Dipoi si deve considerare che, anche ammessa la possibilità per il privato di abdicare unilateralmente al proprio diritto, il bene esce dal di lui patrimonio per effetto di una manifestazione di volontà unilaterale di quest’ultimo, manifestazione che, per definizione, non è qualificata da un vizio di volontà, ed in particolare da coartazione. Quindi non si comprende proprio per quale motivo, a fronte della manifestazione di una volontà abdicativa del proprio diritto di proprietà, al proprietario dovrebbe sempre ed invariabilmente essere riconosciuto il diritto ad ottenere un risarcimento commisurato, sostanzialmente, al valore venale di un bene che non ha mai perso, che ha diritto a vedersi restituire allo stato originario (fatte salve eventuali valutazioni in senso contrario nelle situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 2933 c.c.) e che molte volte vede il suo valore economico accresciuto rispetto al momento della occupazione. Né pare possibile che la domanda risarcitoria possa condizionare la rinunzia abdicativa manifestata dal privato, la quale reca in sé la non onerosità e la rinuncia del privato rinunziante a pretendere qualsivoglia corrispettivo, proprio perché si tratta di rinunzia che non ha un destinatario e che non vuole conseguire altro scopo se non quello di dismettere la proprietà del bene.
26.2.2. In secondo luogo si deve sottolineare che non esiste una norma specifica che obblighi lo Stato a ritrasferire alla amministrazione occupante, gratuitamente o anche solo ad un prezzo simbolico, il bene occupato, alla cui proprietà il privato ha rinunziato e che per tale ragione sarebbe entrato a far parte del patrimonio dello Stato: le amministrazioni occupanti, quindi, a fronte della unilaterale rinunzia manifestata dal privato si trovano onerate dall’obbligo di sborsare una somma commisurata al valore del bene, corrisposta al privato, oltre all’obbligo di sborsare una ulteriore somma danaro necessaria per riacquistare il bene dallo Stato: il Collegio non ignora che esiste una normativa che ad alcune condizioni consente, tra amministrazioni pubbliche, di effettuare trasferimenti di proprietà a prezzi significativamente inferiori a quelli di mercato, ma anche così lo Stato potrebbe pretendere il pagamento di un prezzo, che si aggiungerebbe al risarcimento già corrisposto al privato, salvo che lo Stato e l’amministrazione occupante non si accordino, su base totalmente volontaria, per attuare il trasferimento dell’immobile ad un prezzo simbolico o a titolo di donazione o comunque ad un titolo che non comporti corresponsione di prezzo alcuno.
27. Come si vede sono numerose e gravi le conseguenze insite nell’ammettere che il privato possa sempre rinunziare unilateralmente al proprio diritto di proprietà su un bene immobile, e tali conseguenze sono ancor più gravi ove oggetto di rinunzia sia un bene occupato e trasformato per realizzarvi un’opera di pubblica utilità: si tratta in tutti i casi di conseguenze che, sia pure in modi diversi, vanno a gravare sulla finanza pubblica.
27.1. Che si tratti di un problema molto sentito nella prassi e, quindi, possibilmente foriero di conseguenze incalcolabili, o quasi, è testimoniato dal fatto sono sempre più numerosi i casi in cui privati proprietari manifestano l’intenzione di voler abdicare, con atto notarile, al proprio diritto di proprietà su un immobile, esattamente allo scopo di sottrarsi agli obblighi fiscali nonché agli obblighi di custodia e manutenzione che la proprietà di un bene immobile comporta, al punto che la questione è stata fatta oggetto dello studio civilistico n. 216-2014/C dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale del Notariato, il quale nella premessa spiega che “Il presente studio nasce a seguito di molteplici quesiti pervenuti all’Ufficio studi aventi ad oggetto la possibilità da parte del Notaio di ricevere atti di rinunzia ai diritti reali, nonché la disciplina e gli effetti dei medesimi. Il tema in esame risulta essere particolarmente interessante, sia da un punto di vista prettamente teorico e dogmatico, sia da un punto di vista pratico, tanto più in un contesto socio-economico, quale quello attuale, in cui atti del genere possono risultare frequenti, stante la crisi economica e la forte pressione fiscale. Spesso infatti le fattispecie in cui può emergere la volontà rinunziativa della parte hanno ad oggetto beni e diritti dei quali non si vuole più sostenere l’onere tributario, ovvero che non sono più di interesse, in quanto di scarso valore e praticamente ingestibili (si pensi ad un piccolo fabbricato fatiscente inservibile ovvero alla quota di comproprietà su un piccolo terreno infruttuoso sito in una località molto distante da quella di residenza). Le fattispecie più rilevanti, tra quelle esaminate, sembrano essere quella della rinunzia al diritto di proprietà nonché alla quota indivisa di comproprietà, forse anche perché ritenute le più inconsuete, tanto da dubitarsi – almeno nel sentire comune – persino della loro ammissibilità. La dottrina che se ne è occupata in passato, del resto, le ha quasi sempre considerate come ipotesi di scuola, oggetto di un interesse prettamente teorico, ma che oggi possono divenire concretamente praticabili.”. L’indicato studio conclude nel senso della ammissibilità della rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva di un bene immobile, e quindi è prevedibile che nella prassi tali rinunzie cominceranno ad aumentare e a diventare numerose.
28. Tali considerazioni convincono definitivamente il Collegio che occorre grande prudenza prima di affermare che nel nostro ordinamento la rinunzia abdicativa ai diritti reali, ed in particolare alla proprietà esclusiva su un bene immobile, sia un istituto generalmente ammesso dal legislatore: la considerazione delle gravi conseguenze, per la finanza pubblica, derivanti dall’ammettere senza limiti la rinunzia abdicativa ai diritti reali immobiliari, anche fuori dai casi contemplati dal codice, avrebbe dovuto spingere il legislatore ad esprimersi con norme chiare e specifiche, ciò che non é.
29. Per le ragioni esposte nei paragrafi che precedono il Collegio non crede che il corredo normativo esistente, di cui sopra si è dato conto, giustifichi la affermazione secondo cui la rinunzia abdicativa è ammessa in via generale dal nostro ordinamento e che, conseguentemente, può essere esercitata anche fuori dalle ipotesi disciplinate dal codice civile, segnatamente con riferimento al diritto di proprietà su beni immobili. Essa rinunzia non può essere desunta in via interpretativa da norme che disciplinano casi specifici di rinunzia abdicativa, dalle quali semmai si dovrebbe ricavare che il legislatore ha voluto ammettere solo casi ticipi. Né essa rinunzia si può evincere, in maniera chiara, senza ricorso a forzature interpretative e senza pretendere di “riempire” vuoti normativi, dalle ulteriori norme codicistiche che sopra sono state esaminate: gli articoli 1350 n. 5 e 2643 n. 5, in particolare, facendo riferimento alla rinunzia ai diritti immobiliari possono e debbono interpretarsi, prima di tutto, nel senso che si riferiscono ai casi di rinunzia a diritti reali espressamente disciplinati dal codice (ad esempio: la rinunzia a diritti reali minori; la rinunzia alla quota di proprietà pro indiviso) ovvero, comunque, a casi di rinunzia traslativa, e non abdicativa; d’altro canto l’art. 827 c.c. non contiene alcun riferimento alla rinunzia abdicativa a diritti immobiliari e segnatamente alla rinunzia al diritto di proprietà, né, peraltro, tale norma contiene riferimento alcuno agli atti e fatti giuridici che possono aver dato luogo alla esistenza di beni immobili privi di proprietario. Valga infine la considerazione che tutti i casi di rinunzia a diritti reali contemplati dal codice civile, che la dottrina per lo più qualifica come ipotesi di rinunzia non ricettizia, facendone discendere la natura abdicativa, non rendono mai il bene oggetto del diritto rinunziato privo di proprietario, a differenza di quanto accadrebbe ammettendo che il proprietario singolo di un bene possa unilateralmente abdicare alla proprietà di esso: è quindi lecito presumere che il legislatore abbia ammesso (solo) quelle fattispecie di rinunzia abdicativa a diritti immobiliari che non determinano una “vacatio” nella titolarità del bene, il che conferma, semmai ve ne fosse ancora bisogno, che la rinunzia abdicativa a diritti reali non può considerarsi ammessa in via generale, con conseguente nullità degli atti che ne costituiscono espressione.
30. Il Collegio ritiene, conclusivamente, di doversi discostare dal pressoché unanime e costante orientamento della giurisprudenza civile ed amministrativa che ancora oggi ammette la possibilità, per il privato, il cui bene immobile sia stato illegittimamente occupato per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità, di abdicare unilateralmente alla proprietà di esso: ciò in primo luogo perché deve ritenersi non consentita dal nostro ordinamento giuridico la rinunzia abdicativa alla proprietà esclusiva su beni immobili; in secondo luogo perché una tale rinunzia abdicativa all’attualità deve comunque ritenersi non consentita con riferimento a beni immobili illegittimamente occupati per scopi di pubblica utilità.
31. La domanda risarcitoria formulata dalla ricorrente per vedersi indennizzare della perdita del valore dell’intero terreno deve pertanto essere respinta.
32. La ricorrente resta però proprietaria della porzione di terreno che risulta occupata dalla strada, e di essa, conformemente alla giurisprudenza che si era ormai consolidata a partire dalla fine degli anni 2000 e che prevede che i beni non espropriati debbono essere restituiti ovvero acquisiti in proprietà nelle forme previste dall’ordinamento (compravendita; esproprio; acquisizione ex art. 42 bis), la ricorrente può chiedere ed ottenere la restituzione, ciò che non ha fatto nel presente giudizio. Il Collegio non può quindi disporre la restituzione, a meno di incorrere nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. La ricorrente potrà agire in separata sede per ottenere tale restituzione, fermo restando, tuttavia, che anche dopo la restituzione il Comune di Cherasco manterrà la facoltà di acquisire il bene nelle forme dianzi indicate.
33. Relativamente al danno conseguente al periodo di occupazione, conformemente ai più recenti approdi giurisprudenziali va riconosciuto alla ricorrente il danno conseguente al non aver potuto disporre della porzione di sedime occupata: “posto che la proprietà è la facoltà di godere e disporre del bene, la privazione della facoltà di godimento lascia presumere la lesione del diritto reale, peraltro caratterizzato, a differenza dei diritti relativi, da una atipicità delle possibili forme d'uso. Il proprietario, pertanto, non deve dimostrare positivamente il danno; grava, viceversa, sull'occupante l'onere della prova circa il fatto che il dominus si sia consapevolmente disinteressato dell'immobile ed abbia omesso di esercitare su di esso ogni pur ridotta forma di utilizzazione(cfr., da ultimo, Cass., Sez. 3, 9 agosto 2016, n. 16670; Sez. 2, 15 ottobre 2015, n. 20823; Sez. 2, 7 agosto 2012, n. 14222; Cons. Stato, Sez. IV, 27 febbraio 2017, n. 897)” : così C.d.S. Sez. IV n. 5574 del 28/11/2017 (pronuncia dalla quale il Collegio evidentemente si discosta, invece, per le sopra esposte ragioni, in punto ammissibilità della rinunzia abdicativa della proprietà da parte del privato e della correlativa domanda risarcitoria da questi formula).
34. Il Collegio ritiene di poter procedere equitativamente alla liquidazione del danno, dal momento che, in ragione della modesta superficie occupata, una verificazione sul punto sarebbe antieconomica. Tenuto conto del fatto che la ricorrente nel 2011 ha venduto la residua parte del terreno al prezzo di E. 4.02/mq, assumendo che tale prezzo sia frutto di una svalutazione dovuta alla occupazione, il Collegio ritiene che esso possa rappresentare il valore venale del bene nel 2008, al momento della apprensione. Alla ricorrente spetta dunque un danno “da sottrazione” del bene che va quantificato, per ogni anno di occupazione, in ragione del 5% del valore venale del bene occupato, ovvero il 5% annuo di Euro 361,80 (Euro 4,02/mq x 90 mq.) dal momento della occupazione (1° febbraio 2008) al momento della notificazione della domanda giudiziale (16 febbraio 2011). A detta somma devono aggiungersi la rivalutazione monetaria e gli interessi al tasso legale computati sulla somma anno per anno rivalutata sino al soddisfo.
35. La complessità dei temi trattati giustifica la compensazione delle spese.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, ogni diversa domanda rigettata così provvede:
dichiara improcedibile la domanda di annullamento del provvedimento in epigrafe indicato;
accoglie la domanda risarcitoria limitatamente al danno mancato godimento del sedime di terreno oggetto di illegittima occupazione, nei limiti indicati al paragrafo 33.1.;
per l’effetto condanna il Comune di Cherasco al pagamento, in favore della ricorrente, delle somme indicate al paragrafo 33.1.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 7 giugno 2017 con l'intervento dei magistrati:
Domenico Giordano, Presidente
Roberta Ravasio, Consigliere, Estensore
Giovanni Pescatore, Primo Referendario
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Roberta Ravasio Domenico Giordano
IL SEGRETARIO