La c.d. rinuncia abdicativa - Commento a sentenza TAR Lazio dell'Avv. Marco Morelli
Pubblico
Venerdì, 30 Giugno, 2017 - 09:24
La c.d. rinuncia abdicativa del diritto di proprietà: un modo per “eludere” l’applicazione del provvedimento di acquisizione ex art.42 bis?
Note a margine di TAR Lazio, sentenza n. 6894/2017
Di Marco Morelli
(Avvocato Patrocinante in Cassazione del Foro di Roma)
La c.d. rinuncia abdicativa del diritto di proprietà insita nella semplice richiesta del proprietario che ha subito una occupazione illegittima da parte di una pubblica amministrazione può costituire valido titolo per il passaggio del diritto di proprietà? Stante quanto previsto nella sentenza n. 6894 del TAR Lazio-Roma, pubblicata lo scorso 12 giugno, sembrerebbe proprio di si.
Nel decidere un caso classico di occupazione illegittima da parte di una pubblica amministrazione, i Giudici del TAR Lazio hanno, chiaramente, fatto riferimento, in aggiunta ai classici modi di acquisto del diritto di proprietà da parte di pubbliche amministrazioni ormai costantemente indicati dalla giurisprudenza amministrativa ed ordinaria (accordi e art. 42-bis TU espropri su tutti), a quello della c.d. rinuncia abdticativa al diritto di proprietà insita nella semplice richiesta risarcitoria degli originari proprietari.
Secondo la citata pronuncia basterebbe, ai fini del passaggio del diritto di proprietà, a fronte di una rinuncia abdicativa del proprietario, insita nella sola e semplice richiesta del risarcimento del danno, la liquidazione effettiva del danno dovuto per consentire, alle PA, di trascrivere ex artt. 2643, comma 1, n. 5 e 2645 c.c., il relativo atto (di liquidazione) anche ai fini del passaggio del diritto di proprietà.
Il decisum è oltremodo interessante per le PA ma, al contempo, suscita una serie ragionevole di interrogativi ai quali non è possibile, ancora, fornire adeguata risposta.
I.Il caso deciso dal TAR Lazio-Roma nella sentenza n. 6894.
Il caso deciso dai Giudici romani riguarda la semplice richiesta, avanzata da alcuni privati nei confronti di una pubblica amministrazione, di risarcimento del danno da illegittima occupazione di aree.
I ricorrenti erano proprietari, pro indiviso, di un appezzamento di terreno occorso per la realizzazione di una strada di collegamento; il progetto dell’opera stradale era stato approvato dal Comune espropriante con una deliberazione consiliare dell’anno 1983 comportante dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza ai sensi dell’allora vigente l. n. 1/78; i lavori erano stati ultimati entro il termine quinquennale previsto dalla summenzionata delibera di approvazione, decorrente dall’immissione in possesso ed il correlato procedimento espropriativo, avviato con deliberazione di G.M. del 1985, non era stato portato a termine perché mancata l’emanazione del successivo necessario decreto.
Classica ipotesi, dunque, di illegittima occupazione originariamente collegata ad una valida ed efficace pubblica utilità poi, inesorabilmente, scaduta.
Una di quelle situazioni nelle quali si trovano una miriade di amministrazioni pubbliche, in tutta Italia.
Una situazione per la quale i ricorrenti, davanti al TAR Lazio, hanno ritenuto che trovasse applicazione la disposizione transitoria di cui all’art. 55 del d.P.R. n. 327/2001 e che, per contro, non dovesse utilizzarsi la c.d. acquisizione ex art.42-bis (al riguardo, Cass. civ., sez. I^, 2 agosto 2012, n. 13932; in precedenza, Cass. civ., sez., I^, 28 luglio 2008, n. 20543); una situazione nella quale i ricorrenti hanno contestato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, una volta espunto dall’ordinamento l’istituto dell’accessione invertita, occorrerebbe un passaggio “intermedio” (di natura negoziale ovvero autoritativa) affinché la proprietà trapassi alla mano pubblica, non bastando, all’uopo, la rinuncia da parte del titolare.
Per quanto riguarda la quantificazione dei danni, i ricorrenti hanno sostenuto che dovesse aversi riguardo al c.d. valore venale del bene, senza tenere conto del deprezzamento subito in conseguenza del vincolo preordinato all’esproprio (Corte Cost., sentenza 16 dicembre 1993, n. 442; art. 32, comma 1, del T.U. n. 327/2001).
A sostegno della tesi della “rinuncia abdicativa” hanno richiamano la sentenza della Sezioni Unite della Cassazione, n. 735 del 19.1.2015, la quale ha dato una lettura attualizzata dell’art. 55 del d.P.R. n. 327/2001, statuendo che la disposizione può e deve essere letta come sganciata dall’occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse presente l’inciso «ove non abbia luogo la restituzione» e non più come se in essa fosse presente l’inciso «non essendo possibile la restituzione».
Nel caso trattato dal TAR Lazio ci si trovava pacificamente al cospetto di una procedura espropriativa che non era stata mai conclusa a causa della omessa tempestiva emissione del decreto finale e nell’ambito della quale le aree facenti capo ai ricorrenti erano state occupate ed irreversibilmente trasformate.
Hanno ricordato, al riguardo, i Giudici romani che secondo la costante giurisprudenza amministrativa e civile, successiva agli arresti della Corte Europea dei diritti dell’uomo (ex multis, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia), la pubblica amministrazione non può divenire proprietaria del suolo sulla base di un atto illecito quale si presenta la realizzazione dell'opera pubblica in assenza di un valido titolo ablativo e che nessun acquisto della proprietà di un'area può esservi in assenza di un legittimo atto ablatorio.
Secondo il TAR decidente può ritenersi pacifico in giurisprudenza che in caso di occupazione originariamente o, successivamente, divenuta sine titulo, l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso; e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione acquisitiva o usurpativa originarie - di acquisizione del terreno.
In tali fattispecie, alle amministrazioni agenti, notoriamente, ricorda il TAR Lazio rimangono le seguenti alternative:
1) acquisire l’area ricorrendo alla stipula di fattispecie negoziali civilistiche;
2) restituire l’area, previa remissione in pristino stato e corresponsione del risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla restituzione;
3) adottare un eventuale provvedimento di acquisizione ai sensi dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, corrispondendo al privato il valore venale del bene, il risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla emissione del provvedimento e le ulteriori poste risarcitorie contenute nella disposizione da ultimo citata.
Sin qui la sentenza non fa altro che ribadire principi ormai consolidati nella giurisprudenza a partire dal tramonto della c.d. accessione invertita, a lungo (e fino all’entrata in vigore del testo unico sugli espropri), la base per risolvere i casi spinosi di illegittime occupazioni delle pubbliche amministrazioni.
Invero, dopo aver elencato le classiche forme di risoluzione delle note occupazioni senza titolo, i Giudici del TAR Lazio si soffermano su quella che, a rigore, viene indicata come nuova forma di acquisizione del diritto di proprietà dalle pubbliche amministrazioni in assenza di altro titolo.
Alle ipotesi predette, infatti, si deve aggiungere – per il decidente – quella della c.d. rinuncia abdicativa, implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo; a supporto della propria posizione il TAR richiama significativi precedenti quali, in particolare, Cass. civ., sentenza 19 gennaio 2015, n. 735, 29 ottobre 2015, n. 22096 e 25 luglio 2016, n. 152839, Cons. St., A.P., n. 2 del 9 febbraio 2016, id., sez. IV, sentenza n. 4636 del 7.11.2016, ma anche la sentenza n. 1833/2017, della sez. IV, resa in sede di appello avverso la sentenza della Sezione n. 12638/2016.
Con riferimento, infatti, alla specifica ipotesi in cui il proprietario formuli non già la domanda di restituzione o di riduzione in pristino del proprio bene, illecitamente occupato dall’amministrazione, ma di solo risarcimento del danno, con effetti abdicativi del diritto di proprietà, il Consiglio di Stato nella sentenza n. 4636/2016 ha affermato che: “a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell’atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno - rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto - costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia. b) in ordine alla determinazione del quantum del risarcimento, questo deve essere commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso legale, da calcolarsi fino al momento dell’effettivo soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si è verificata la perdita del diritto di proprietà e l’ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea diritti dell’uomo, 22 dicembre 2009, Guiso – Gallisay c. Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 9 luglio 2014, n. 14604); c) quanto alla determinazione del risarcimento del danno per mancato godimento del bene a cagione dell’occupazione illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere calcolato – ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in assenza di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa di diversi ulteriori profili di danno – facendo applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori dettati dall’art. 42-bis t.u. espr. (cfr. da ultimo sul punto Cons. Stato, sez. IV, 23 settembre 2016 n. 3929; 28 gennaio 2016 n. 329; 2 novembre 2011 n. 5844), e dunque in una somma pari al 5% annuo del valore del terreno; d) non spetta, invece, in difetto di prova specifica alcuna liquidazione in misura forfettaria del danno non patrimoniale sia in quanto ciò è previsto, dall’art. 42-bis, co. 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa acquisizione del bene con decreto della pubblica amministrazione (e non già in presenza di un negozio abdicativo del privato), sia in quanto – con riferimento non già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con riferimento alla compressione delle facoltà di godimento – la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria) […]”.
Nel caso deciso dal TAR Lazio l’unica domanda avanzata dai ricorrenti era stata quella di risarcimento del danno non solo per il mancato godimento del bene negli anni in cui la P.A. lo aveva illegittimamente occupato, ma anche per la sua sostanziale perdita, in quanto esso era stato irreversibilmente trasformato.
I Giudici romani hanno, pertanto, accolto la domanda di risarcimento avanzata dai privati ricorrenti; per quanto riguarda la determinazione del danno, il TAR decidente, applicando l’art. 34, comma 4, c.p.a., ha assegnato il termine di 90 (novanta) giorni, decorrenti dalla comunicazione e/o notificazione della sentenza, all’amministrazione pubblica per proporre ai ricorrenti una somma determinata come segue: 1) per quanto riguarda il risarcimento dei danni connessi alla perdita del diritto di proprietà sulla base del valore venale del bene, alla data di proposizione del ricorso introduttivo, poiché, a tale data, si è verificata la rinuncia “abdicativa” al diritto di proprietà; 2) per quanto riguarda i danni conseguenti all’occupazione illegittima del bene, corrente dall’irreversibile trasformazione sino alla data della rinuncia “abdicativa” il danno va quantificato nel 5% (cinque per cento) annuo sul valore venale di cui al punto 1; 3) sulla somme di cui ai punti precedenti dovranno essere calcolati interessi e rivalutazione sino alla data in cui la proposta dell’amministrazione perverrà ai ricorrenti; 4) su tutte le somme dovute, così come individuate, decorreranno gli interessi legali dalla data delle proposta fino al soddisfo.
In caso di accettazione della proposta, l’amministrazione agente, secondo il TAR Lazio, dovrà provvedere alle conseguenti trascrizioni, secondo le modalità indicate nella sentenza del Consiglio di Stato n. 4636/2016, diventando, a tal uopo, proprietaria dei beni trasformati.
II. La rinuncia abdicatica quale modo di acquisto del diritto di proprietà ulteriore ed elusivo dell’art. 42-bis TU espropri. Una serie di legittimi interrogativi ai quali è ancora difficile dare risposta.
Quello indicato dal TAR Lazio, nella sentenza in commento, rappresenta, a rigore, un modo di acquisto del diritto di proprietà di aree illegittimamente occupate da pubbliche amministrazioni, alternativo al rimedio della c.d. acquisizione ex art.42-bis del testo unico sugli espropri.
In linea con l’indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato per effetto delle note ed autorevoli sentenze della Corte Costituzionale n. 71/2015 e Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.2/2016, che vuole l’art.42-bis extrema ratio per superare le occupazioni illegittime, il TAR Lazio-Roma offre lo spunto, per le amministrazioni esproprianti, per risolvere il noto problema con un altro strumento che si aggiunge a quello degli accordi e dello stesso art.42-bis (in disparte l’usucapione sulla quale, la giurisprudenza amministrativa dell’ultimo biennio, ha posto consistenti limitazioni).
La c.d. rinuncia abdicativa insita nella richiesta del solo risarcimento del danno, infatti, diventa a tutti gli effetti un modo di acquisto del diritto di proprietà da parte delle pubbliche amministrazioni alle prese con occupazioni illegittime.
Secondo il TAR romano, in linea, sul punto, col precedente del Consiglio di Stato n. 4636/2016, stante la natura abdicativa e non traslativa della rinuncia, il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno (rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto) costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia.
Invero l’abdicazione insita nella domanda risarcitoria di un privato, non essendo propriamente traslativa del diritto di proprietà, diventa atto risolutivamente condizionato al pagamento, da parte della pubblica amministrazione, del risarcimento del danno; in pratica, a fronte di una richiesta risarcitoria di privati, una volta che le pubbliche amministrazioni pagano (meglio: liquidano) il risarcimento del relativo danno, possono procedere alla trascrizione in conservatoria dei registri immobiliari dell’atto di liquidazione del danno anche ai fini dell’art.2643 n. 5 e 2645 c.c..
La trascrizione dell’atto di liquidazione, in altri termini, consente alle p.a. di garantire anche la loro continuità secondo c.c., in particolare secondo l’art. 2643 n. 5 c.c. che dispone che si devono rendere pubblici con la trascrizione gli atti tra vivi di rinunzia ai diritti menzionati nei numeri precedenti (tra cui quelli di acquisto del diritto di proprietà).
La sentenza del TAR Lazio, in definitiva, offre spunti di riflessione, per le pubbliche amministrazioni, per utilizzare strumenti alternativi all’art. 42-bis del TU espropri.
Ora, affinchè la c.d. rinuncia abdicativa possa, realmente, costituire modo di acquisto del diritto di proprietà, hanno ricordato i Giudici romani, in ossequio al precedente del Consiglio di Stato n. 4636/2016, occorre vi sia anche il pagamento dei danni.
Ebbene, le domande (ed i relativi dubbi) sorgono spontanee.
Alla luce della ricostruzione della c.d. rinuncia abdicativa da parte del TAR Lazio n. 6894/2017 e del precedente in termini ivi citato, può (e se si, da quando?) la pubblica amministrazione ammettere che la condotta del proprietario possa costituire valido modo di acquisto della proprietà?
Invero tanto il TAR Lazio quanto i Giudici di Palazzo Spada riconoscono che la c.d. rinuncia abdicativa al diritto di proprietà sia sottoposta alla condizione risolutiva della liquidazione del danno al proprietario: gli interrogativi sono diversi.
In primo luogo quale, a rigore, l’atto abdicativo idoneo? La “semplice” diffida e messa in mora del proprietario nei confronti della pubblica amministrazione diretta al solo pagamento del risarcimento del danno da illegittima occupazione può essere sufficiente ovvero è necessaria l’azione giudiziale risarcitoria?
In secondo luogo, sul quantum del risarcimento, può la pubblica amministrazione ritenere non inverata la condizione risolutiva richiamata dalle sopra citate sentenze con il riconoscimento di un importo diverso da quello chiesto dal privato ovvero occorre esattamente il pagamento di quanto voluto dal privato?
Invero le risposte ai prospettati interrogativi producono delle conseguenze di non poco conto.
Proviamo ad immaginare un caso reale, del resto anche simile a quello che ha costituito l’antefatto storico della sentenza del TAR Lazio che si commenta.
Immaginiamo che il Comune X riceva una diffida e messa in mora da un proprietario per il pagamento del danno da illegittima occupazione: volendo rintracciare, nella richiesta del privato, una condotta abdicativa, a rigore, la pubblica amministrazione con la liquidazione di una somma di denaro a titolo di risarcimento potrebbe trascrivere l’atto relativo (di liquidazione) secondo le previsioni dell’art. 2643 n. 5 e 2645 c.c. ed acquisire il titolo di proprietà senza dover azionare l’art. 42-bis TU espropri.
Chiaro è che se si aderisse a questa posizione, le pubbliche amministrazioni sarebbero molto molto facilitate nella definizione di annosi casi di occupazioni illegittime: basterebbe, così facendo, all’esito di una richiesta risarcitoria, liquidare una somma (anche bassa) a titolo di risarcimento e procedere alla trascrizione.
Invero sembrerebbe sufficiente, attenendosi al dato letterale delle sentenze del TAR Lazio e del Consiglio di Stato citate, ai fini del passaggio di proprietà, liquidare il danno secondo il valore del bene al momento dell’atto abdicativo, per divenire, da parte della pubblica amministrazione, titolare dell’immobile con la partita risarcitoria del danno da mancato utilizzo del bene, da giocare diversamente (ed in altre sedi?) da parte del proprietari.
Ammettere una simile interpretazione del c.d. effetto abdicativo del diritto di proprietà, a ben vedere, potrebbe consentire alle pubbliche amministrazioni di chiudere rapidamente il tema (rectius: problema) delle occupazioni illegittime senza la necessità di passare per defaticanti accordi o per l’applicazione dell’art. 42-bis TUE.
Ma è proprio questa la corretta interpretazione?
O, piuttosto, per dare alla c.d. rinuncia abdicativa del proprietario il valore di modo di acquisto legittimo del diritto di proprietà occorre che la PA paghi esattamente l’importo chiesto dal privato e dopo che lo stesso abbia agito in giudizio piuttosto che a mezzo di semplice diffida e messa in mora?
A rigore, esaminando, nel dettaglio, sia la pronuncia del TAR Lazio in commento che la sentenza n. 4636/2016 del Consiglio di Stato, si ricava inequivocabilmente che i predetti giudici amministrativi ammettono che le illecite occupazioni delle pubbliche amministrazioni possano essere superate, tra gli altri, con la c.d. rinunzia abdicativa da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo.
Ciò che non risulta altrettanto chiaro è se la richiesta di risarcimento debba necessariamente dirsi vincolata alla instaurazione di un giudizio risarcitorio ovvero se sia sufficiente la semplice diffida e messa in mora e, soprattutto, se la PA sia vincolata al pagamento di quanto effettivamente richiesto dal proprietario.
Chiaro che, aderendo ad una interpretazione più estensiva che ammettesse che le PA possano diventare proprietarie a seguito della rinuncia implicita nell’atto di messa in mora e che possa trascriversi l’atto di liquidazione di una somma di denaro anche diversa ed inferiore a quella presentata dal privato, si consentirebbe a molte amministrazioni di rapidamente (e facilmente) superare il problema (quanto meno per quanto attiene al diritto di proprietà) delle occupazioni illegittime.
Una interpretazione più restrittiva, ossia che ritenesse necessario, ai fini abdicativi, l’atto giudiziale ed il pagamento di quanto previsto dal proprietario, rischierebbe di rendere vana, ad avviso di chi scrive, la voluntas giurisprudenziale di attribuire alla rinuncia abdicativa il valore di modo di acquisto della proprietà.
Interrogativi legittimi ai quali, allo stato, sembra ancora difficile fornire una risposta plausibile senza alterare la voluntas giurisprudenziale più o meno manifestata nei citati ultimi pronunciamenti.
Resta, però, che la sentenza del TAR Lazio in rassegna, deve costituire un giusto motivo per indurre a ragionamenti seri e circostanziati sul valore della c.d. rinuncia abdticativa quale risoluzione agli annosi casi di illegittime occupazioni.
E’ quanto gli operatori di settore debbono fare: interrogarsi, alla luce degli arresti giurisprudenziali ultimi, per poi cercare una plausibile soluzione ….. unico modo, tra l’altro, per “sfuggire” al sindacato di colpa grave al quale, inesorabilmente, rischiano di essere, prima o poi, chiamati dalla Corte dei Conti in caso di totale inerzia.
MARCO MORELLI
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, (Sezione Seconda), sentenza n. 6894 del 12 giugno 2017, sulla c.d. rinuncia abdicativa del diritto di proprietà
MASSIMA
Secondo la costante giurisprudenza amministrativa e civile, successiva agli arresti della Corte Europea dei diritti dell’uomo (ex multis, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia), la pubblica amministrazione non può divenire proprietaria del suolo sulla base di un atto illecito (quale è la realizzazione dell'opera pubblica in assenza di un valido titolo ablativo) e nessun acquisto della proprietà di un'area può esservi in assenza di un legittimo atto ablatorio.
Si può ritenere pacifico in giurisprudenza il principio per cui, in caso di occupazione originariamente o, successivamente, divenuta sine titulo, l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso; e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno. In tali fattispecie, all’amministrazione rimangono le seguenti alternative:1) acquisire l’area ricorrendo alla stipula di fattispecie negoziali civilistiche; 2) restituire l’area, previa remissione in pristino stato e corresponsione del risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla restituzione; 3) adottare un eventuale provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, corrispondendo al privato il valore venale del bene, il risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla emissione del provvedimento e le ulteriori poste risarcitorie contenute nella disposizione da ultimo citata. A tali ipotesi, si aggiunge oggi quella della rinuncia abdicativa, implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo (cfr., in particolare, Cass. civ., sentenza 19 gennaio 2015, n. 735; 29 ottobre 2015, n. 22096 e 25 luglio 2016, n. 152839; Cons. St., A.P., n. 2 del 9 febbraio 2016; id., sez. IV, sentenza n. 4636 del 7.11.2016; cfr. anche la sentenza n. 1833/2017, della sez. IV, resa in sede di appello avverso la sentenza della Sezione n. 12638/2016).
Stante la natura abdicativa e non traslativa dell’atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno - rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto - costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia;
In ordine alla determinazione del quantum del risarcimento, questo deve essere commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso legale, da calcolarsi fino al momento dell’effettivo soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si è verificata la perdita del diritto di proprietà e l’ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea diritti dell’uomo, 22 dicembre 2009, Guiso – Gallisay c. Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 9 luglio 2014, n. 14604).
Quanto alla determinazione del risarcimento del danno per mancato godimento del bene a cagione dell’occupazione illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere calcolato – ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in assenza di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa di diversi ulteriori profili di danno – facendo applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori dettati dall’art. 42-bis t.u. espr. (cfr. da ultimo sul punto Cons. Stato, sez. IV, 23 settembre 2016 n. 3929; 28 gennaio 2016 n. 329; 2 novembre 2011 n. 5844), e dunque in una somma pari al 5% annuo del valore del terreno.
Non spetta, in difetto di prova specifica, alcuna liquidazione in misura forfettaria del danno non patrimoniale sia in quanto ciò è previsto, dall’art. 42-bis, co. 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa acquisizione del bene con decreto della pubblica amministrazione (e non già in presenza di un negozio abdicativo del privato), sia in quanto – con riferimento non già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con riferimento alla compressione delle facoltà di godimento – la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria).
N. 06894/2017 REG.PROV.COLL.
N. 09055/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9055 del 2013, proposto da:
omissis, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Giuseppe Lavitola e prof. Paolo Saitta, con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, via Costabella, 23;
contro
Roma Capitale, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Giorgio Pasquali, con domicilio in Roma, via Tempio di Giove, 21, presso l’Avvocatura capitolina;
per il risarcimento
dei danni derivanti dall' illecita utilizzazione delle aree di proprietà dei ricorrenti occorse per la realizzazione della via Ignazio Silone, in Roma;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Viste le memorie difensive;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del giorno 10 maggio 2017 il Cons. Silvia Martino;
Uditi gli avvocati, di cui al verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. I ricorrenti sono proprietari, pro indiviso, di un appezzamento di terreno sito in Roma, località “Laurentino”, censito in Catasto al foglio 866, particelle 30/r di mq 60 e 31/r di mq.2790, occorso per la realizzazione della via Ignazio Silone, strada di collegamento tra il P.Z. Laurentino 38 e la via Cristoforo Colombo.
Il progetto dell’opera stradale è stato approvato dal Comune di Roma con delibera consiliare 24 marzo 1983, n. 1585, comportante dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza ai sensi dell’allora vigente l. n. 1/78.
I lavori sono stati ultimati entro il termine quinquennale previsto dalla summenzionata delibera di approvazione, decorrente dall’immissione in possesso avvenuta il 18 dicembre 1984 e successivamente prorogato fino al 18.12.1990 (cfr. la delibera n. 8360 del 14.12.1987, versata in atti dalla difesa capitolina).
Il correlato procedimento espropriativo, avviato con deliberazione di G.M. n. 5536 del 18 giugno 1985, non è stato tuttavia portato a termine, perché è mancata l’emanazione del successivo necessario decreto di esproprio.
Al fine di regolarizzare tale situazione di abuso, l’amministrazione, con determinazione dirigenziale del Dipartimento IX n. 780 del 9 giugno 2009, ha proposto ai proprietari di addivenire ad una conciliazione stragiudiziale offrendo, a fronte della cessione del bene, il pagamento di una cifra forfettaria, inclusiva di interessi e risarcimento dei danni.
A tutt’oggi, però, la situazione non ha trovato sbocco, sicché permane la situazione di illecita occupazione dell’area.
Con il presente ricorso essi domandano, pertanto, il risarcimento dei danni che si sono prodotti, derivanti dall’illecita utilizzazione dell’area.
Ritengono in particolare, che, nella fattispecie, trovi applicazione la disposizione transitoria di cui all’art. 55 del d.P.R. n. 327/2001 e che, per contro, non potrebbe trovare applicazione l’istituto dell’acquisizione sanante (citano, al riguardo, Cass. civ., sez. I^, 2 agosto 2012, n. 13932; in precedenza, Cass. civ., sez., I^, 28 luglio 2008, n. 20543).
Contestano inoltre l’indirizzo giurisprudenziale, secondo cui, una volta espunto dall’ordinamento l’istituto dell’accessione invertita, occorrerebbe un passaggio “intermedio” (di natura negoziale ovvero autoritativa) affinché la proprietà trapassi in mano pubblica, non bastando, all’uopo, la rinuncia da parte del titolare.
La tesi peraltro – sottolineano i ricorrenti – è in via di abbandono anche da parte del giudice amministrativo.
Per quanto riguarda la quantificazione dei danni, essi sostengono poi che debba aversi riguardo al valore venale del bene, senza tenere conto del deprezzamento subito in conseguenza del vincolo preordinato all’esproprio (Corte Cost., sentenza 16 dicembre 1993, n. 442; art. 32, comma 1, del T.U. n. 327/2001).
Il valore di mercato andrebbe quindi ricercato facendo riferimento alle originarie, intrinseche caratteristiche dell’area al momento dell’imposizione del vincolo, con particolare riguardo al regime dell’area circonvicina in cui è stato realizzato il piano di edilizia economica e popolare Laurentino 38.
Secondo la perizia di stima, allegata al ricorso, sulla scorta degli indici di densità territoriale e fondiario del P.Z. confinante, il prezzo dell’area è pari a L. 155.000/mq, a cui corrisponde un valore complessivo di L. 441.750.000.
I ricorrenti chiedono poi anche il risarcimento per gli anni di occupazione illecita, da calcolarsi in ragione degli interessi legali sul valore del bene, per ciascuno degli anni in questione.
Il tutto, oltre interessi e rivalutazione monetaria, e senza contare il danno extrapatrimoniale patito nel defatigante tentativo di ottenere soddisfazione del torto subito.
Si è costituita, per resistere, Roma Capitale.
Con memoria del 15.4.2016, i ricorrenti si sono soffermati sulla proposta di conciliazione stragiudiziale maturata nel 2009, ma mi concretizzatasi.
Ciò in quanto, sono emerse, negli uffici, due posizioni contrapposte: da un lato, quella del trasferimento del bene, in via convenzionale, dall’altro quella dell’applicazione alla fattispecie della c.d. acquisizione sanante.
Di fronte a questo modo ondivago di procedere i ricorrenti, pur confermando la loro disponibilità ad una soluzione stragiudiziale, hanno posto come condizione essenziale che la vicenda fosse definita entro e non oltre il 31 luglio 2012. Trascorso inutilmente detto termine hanno ritirato la loro disponibilità.
A sostegno della tesi della “rinuncia abdicativa” richiamano in particolare la sentenza della Sezioni Unite della Cassazione, n. 735 del 19.1.2015, la quale ha dato una lettura attualizzata dell’art. 55 del d.P.R. n. 327/2001, statuendo che la disposizione può e deve essere letta oggi come sganciata dall’occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse presente l’inciso «ove non abbia luogo la restituzione» e non più come se in essa fosse presente l’inciso «non essendo possibile la restituzione». La Cassazione ha poi concluso che al proprietario, in alternativa alla restituzione, è sempre concessa l’opzione risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato. Si tratta di una rinuncia che ha carattere abdicativo e non traslativo, dalla quale non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’amministrazione.
I ricorrenti hanno quindi ribadito che il controvalore dell’area, cui hanno diritto, è di euro 228.145,00. Tale somma deve essere rivalutata all’attualità, per un ammontare di euro 441.460,58, cui vanno aggiunti gli interessi legali sugli importi via via rivalutati quale corrispettivo per il mancato godimento in tutti questi anni.
Con memoria del 21.4.2016, l’amministrazione capitolina ha richiamato l’attenzione sulla proposta di definizione bonaria della vicenda che prevedeva la cessione della proprietà dell’area, a fronte di un corrispettivo, forfettariamente determinato, di euro 190.000,00.
Questa proposta è stata formalmente accettata dalla proprietà sia pure fissando come condizione la definizione della vicenda entro il 31.7.2012.
Al riguardo, l’amministrazione riferisce che, in data 19.7.2012, chiedeva ai signori Del Tosto i documenti necessari per perfezionare la cessione, richiesta a cui, però, non è stato dato riscontro.
Ritiene quindi la difesa capitolina che l’incontro delle volontà formalizzato tra le parti non consenta di ottenere in via giurisdizionale una modifica di quanto stabilito in sede transattiva.
Argomenta, poi, sull’inammissibilità della domanda intesa ad ottenere il controvalore del bene, in assenza del passaggio della titolarità del diritto reale a seguito dell’occupazione.
In vista della pubblica udienza del 23.11.2016, i ricorrenti hanno depositato una ulteriore memoria, contestando, in primo luogo, la circostanza del preteso intervenuto perfezionamento di un accordo transattivo.
Al riguardo, hanno posto l’accento sulle note degli uffici capitolini da cui risulta che l’amministrazione ha ritenuto “superato” il provvedimento autorizzativo dell’acquisizione in via negoziale.
Nel 2012, poi, gli odierni ricorrenti hanno chiesto all’amministrazione ad adottare al più presto, e, comunque entro il 31.7.2012, un “provvedimento amministrativo”, ragion per cui tale lettera non costituisce una “accettazione delle proposta” ma semmai una sollecitazione all’adozione del provvedimento di acquisizione entro un termine certo.
Ribadiscono di non avere invocato l’applicazione dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001 bensì quella l’art. 55 del Testo Unico Espropri.
Quanto, poi, al progressivo superamento della tesi della pretesa inammissibilità della domanda risarcitoria intesa a conseguire il controvalore venale del bene, richiamano i più recenti pronunciamenti del Consiglio di Stato (in particolare, la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 9.2.2016)
Il ricorso è passato in decisione, una prima, volta, alla pubblica udienza del 23.11.2016.
Con sentenza n. 12638 del 20.12.2016, dopo aver definito alcune questioni preliminari, la Sezione ha assegnato a Roma Capitale il termine di 90 (novanta) giorni, decorrente dalla comunicazione e/o dalla notificazione della sentenza, per l’eventuale adozione del provvedimento di acquisizione delle aree di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
L’amministrazione capitolina non ha adempiuto.
I ricorrenti hanno quindi chiesto alla Sezione di disporre una CTU avente ad oggetto il seguente quesito: “Valuti il CTU il valore venale dell’are con riferimento all’epoca della sua irreversibile trasformazione avvenuta con l’ultimazione dei lavori in data 5 giugno 1989”.
Il ricorso è stato assunto nuovamente in decisione alla pubblica udienza del 10 maggio 2017.
2. Come già evidenziato nella sentenza n. 12638/2016, non vi è contestazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, così come esposti nella narrativa che precede, salvo che per quanto riguarda la circostanza relativa al raggiungimento tra le parti di un accordo di natura transattiva e/o preliminare alla cessione volontaria del compendio di cui si verte.
Ci si trova quindi pacificamente al cospetto di una procedura espropriativa che non è stata mai conclusa a causa della omessa tempestiva emissione del decreto di esproprio e nell’ambito della quale le aree facenti capo ai ricorrenti sono state occupate ed irreversibilmente trasformate.
Secondo la costante giurisprudenza amministrativa e civile, successiva agli arresti della Corte Europea dei diritti dell’uomo (ex multis, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia), la pubblica amministrazione non può divenire proprietaria del suolo sulla base di un atto illecito (quale è la realizzazione dell'opera pubblica in assenza di un valido titolo ablativo) e nessun acquisto della proprietà di un'area può esservi in assenza di un legittimo atto ablatorio.
Si può quindi ritenere pacifico in giurisprudenza il principio per cui, in caso di occupazione originariamente o, successivamente, divenuta sine titulo, l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso; e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno.
In tali fattispecie, all’amministrazione rimangono le seguenti alternative:
1) acquisire l’area ricorrendo alla stipula di fattispecie negoziali civilistiche;
2) restituire l’area, previa remissione in pristino stato e corresponsione del risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla restituzione;
3) adottare un eventuale provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, corrispondendo al privato il valore venale del bene, il risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla emissione del provvedimento e le ulteriori poste risarcitorie contenute nella disposizione da ultimo citata.
A tali ipotesi, si aggiunge oggi quella della rinuncia abdicativa, implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo (cfr., in particolare, Cass. civ., sentenza 19 gennaio 2015, n. 735; 29 ottobre 2015, n. 22096 e 25 luglio 2016, n. 152839; Cons. St., A.P., n. 2 del 9 febbraio 2016; id., sez. IV, sentenza n. 4636 del 7.11.2016; cfr. anche la sentenza n. 1833/2017, della sez. IV, resa in sede di appello avverso la sentenza della Sezione n. 12638/2016).
Con riferimento alla specifica ipotesi in cui il proprietario formuli non già la domanda di restituzione ovvero di riduzione in pristino del proprio bene, illecitamente occupato dall’amministrazione, bensì di risarcimento del danno patito, con effetti abdicativi del diritto di proprietà, il Consiglio di Stato (sentenza n. 4635/2016, cit.) ha affermato che:
«a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell’atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno - rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto - costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia;
b) in ordine alla determinazione del quantum del risarcimento, questo deve essere commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso legale, da calcolarsi fino al momento dell’effettivo soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si è verificata la perdita del diritto di proprietà e l’ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea diritti dell’uomo, 22 dicembre 2009, Guiso – Gallisay c. Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 9 luglio 2014, n. 14604);
c) quanto alla determinazione del risarcimento del danno per mancato godimento del bene a cagione dell’occupazione illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere calcolato – ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in assenza di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa di diversi ulteriori profili di danno – facendo applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori dettati dall’art. 42-bis t.u. espr. (cfr. da ultimo sul punto Cons. Stato, sez. IV, 23 settembre 2016 n. 3929; 28 gennaio 2016 n. 329; 2 novembre 2011 n. 5844), e dunque in una somma pari al 5% annuo del valore del terreno;
d) non spetta, invece, in difetto di prova specifica alcuna liquidazione in misura forfettaria del danno non patrimoniale sia in quanto ciò è previsto, dall’art. 42-bis, co. 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa acquisizione del bene con decreto della pubblica amministrazione (e non già in presenza di un negozio abdicativo del privato), sia in quanto – con riferimento non già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con riferimento alla compressione delle facoltà di godimento – la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria) […]».
Nel caso di specie, la principale ed, anzi, unica domanda avanzata dai ricorrenti è quella di risarcimento del danno, non solo per il mancato godimento del bene, negli anni in cui la p.a. lo ha illegittimamente occupato, ma anche per la sua sostanziale perdita, in quanto esso è stato irreversibilmente trasformato. Essi non hanno quindi più interesse alla restituzione.
Va poi ribadito quanto già rilevato con la sentenza n. 12638/2016, e cioè che deve escludersi che la situazione di illecito sia venuta meno per effetto della “conciliazione” autorizzata con d.d. n. 780 del 9.6.2009, sulla base dell’atto di impegno del 28.5.2009, sottoscritto dagli odierni ricorrenti.
Risulta infatti che, dopo l’adozione di tale provvedimento, la Direzione Contratti prima, e il Segretario Generale dopo, interpellati ai fini della stipula di un “atto transattivo”, o comunque ai fini della formalizzazione in via negoziale del trasferimento del bene, abbiano espresso dubbi in ordine a tale soluzione negoziale, ed invitato gli uffici a procedere dapprima ai sensi dell’art. 43 del t.u. espropri e poi dell’art. 42- bis del medesimo testo (cfr., in particolare, le note prot. n. SC/194818 del 27.7.2009 e prot. n. SC/242788 del 21.9.2011).
Inoltre, stando alla documentazione versata in atti dall’Avvocatura capitolina, la soluzione negoziale ha ripreso vigore, mercé la redazione di uno schema di atto transattivo – traslativo, soltanto dopo la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del t.u. espropri, per poi essere nuovamente revocata in dubbio con l’entrata vigore dell’art. 42 – bis.
I ricorrenti, dal canto loro, pur manifestando ancora la propria disponibilità ad una soluzione negoziale, hanno condizionato tale volontà ad una definizione dell’intera vicenda «entro e non oltre il 31 luglio 2012» (cfr. la lettera dei ricorrenti in data 28.5.2012).
E’ ben vero che alla richiesta di documentazione del 19.7.2012, finalizzata al completamento dell’ iter procedurale per la liquidazione dell’importo onnicomprensivo a titolo di indennità di occupazione, risarcimento del danno e interessi legali», essi non hanno dato riscontro.
Tuttavia, tale richiesta appare ancora un provvedimento interlocutorio, non essendosi mai giunti ad un vero e proprio accordo preliminare, vincolante anche per l’amministrazione, né, tantomeno, al perfezionamento di un accordo di cessione volontaria.
L’amministrazione, peraltro, è rimasta inerte anche quando la Sezione, con la sentenza n. 12638/2016, le ha ordinato di valutare se assumere un provvedimento ex art. 42 – bis del testo unico espropri.
2.1. Ciò posto, la domanda di risarcimento deve essere accolta.
Per quanto riguarda la determinazione del danno, il Collegio ritiene che possa utilizzarsi l’istituto previsto dall’art. 34, comma 4, c.p.a., secondo cui «In caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine».
Pertanto, nel termine di 90 (novanta) giorni decorrenti dalla comunicazione e/o notificazione della presente sentenza, Roma Capitale dovrà proporre ai ricorrenti una somma determinata secondo i criteri già in precedenza evidenziati, ovvero:
1) per quanto riguarda il risarcimento dei danni connessi alla perdita del diritto di proprietà, si dovrà tenere conto del valore venale del bene, alla data di proposizione del ricorso introduttivo (il 31.7.2013), poiché, a tale data, si è verificata la rinuncia “abdicativa” al diritto di proprietà;
2) per quanto riguarda i danni conseguenti all’occupazione illegittima del bene, corrente dal 19.12.1990 sino al 31.7.2013 (data della rinuncia “abdicativa”) il danno va quantificato nel 5% (cinque per cento) annuo sul valore venale di cui al punto 1;
3) sulla somme di cui ai punti precedenti dovranno essere calcolati interessi e rivalutazione sino alla data in cui la proposta di Roma Capitale perverrà ai ricorrenti;
4) su tutte le somme dovute, così come individuate, decorreranno gli interessi legali dalla data delle proposta fino al soddisfo.
In caso di accettazione della proposta, l’amministrazione capitolina dovrà anche provvedere alle conseguenti trascrizioni, secondo le modalità indicate nella cit. sentenza del Consiglio di Stato n. 4636/2016.
Se le parti non dovessero giungere ad un accordo nel termine indicato, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV del c.p.a., potrà essere richiesta la determinazione della somma dovuta.
Le spese seguono come di regola la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II^, definitivamente pronunciando sul ricorso, di cui in premessa, lo accoglie e, per l’effetto, condanna Roma Capitale al risarcimento del danno in favore dei ricorrenti, da liquidare secondo i criteri, i tempi e le modalità di cui in motivazione.
Condanna Roma Capitale alla rifusione delle spese di giudizio che si liquidano, complessivamente, in euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre gli accessori, se dovuti, come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 maggio 2017 con l'intervento dei magistrati:
Antonino Savo Amodio, Presidente
Silvia Martino, Consigliere, Estensore
Roberto Caponigro, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Silvia Martino Antonino Savo Amodio
IL SEGRETARIO