La rinuncia abdicativa del diritto di proprietà - TAR Lazio Roma, n. 6894 del 12.06.2017
Pubblico
Lunedì, 19 Giugno, 2017 - 08:55
Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, (Sezione Seconda), sentenza n. 6894 del 12 giugno 2017, sulla c.d. rinuncia abdicativa del diritto di proprietà
COMMENTO BREVE AVV. MARCO MORELLI
La rinuncia abdicativa del diritto di proprietà: un modo per eludere l’applicazione dell’art.42 bis TU espropri?
Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, nella sentenza n. 6894 del 12 giugno 2017, si sofferma diffusamente, riprendendo il precedente del Consiglio di Stato n. 4635 del 2106, sulla c.d. rinuncia abdicativa del diritto di proprietà considerata come modo di acquisto del titolo da parte delle amministrazioni esproprianti. Secondo il TAR Lazio, stante la natura abdicativa e non traslativa dell’atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno - rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto - costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia.
MASSIMA
Secondo la costante giurisprudenza amministrativa e civile, successiva agli arresti della Corte Europea dei diritti dell’uomo (ex multis, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia), la pubblica amministrazione non può divenire proprietaria del suolo sulla base di un atto illecito (quale è la realizzazione dell'opera pubblica in assenza di un valido titolo ablativo) e nessun acquisto della proprietà di un'area può esservi in assenza di un legittimo atto ablatorio.
Si può ritenere pacifico in giurisprudenza il principio per cui, in caso di occupazione originariamente o, successivamente, divenuta sine titulo, l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso; e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno. In tali fattispecie, all’amministrazione rimangono le seguenti alternative:1) acquisire l’area ricorrendo alla stipula di fattispecie negoziali civilistiche; 2) restituire l’area, previa remissione in pristino stato e corresponsione del risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla restituzione; 3) adottare un eventuale provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, corrispondendo al privato il valore venale del bene, il risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla emissione del provvedimento e le ulteriori poste risarcitorie contenute nella disposizione da ultimo citata. A tali ipotesi, si aggiunge oggi quella della rinuncia abdicativa, implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo (cfr., in particolare, Cass. civ., sentenza 19 gennaio 2015, n. 735; 29 ottobre 2015, n. 22096 e 25 luglio 2016, n. 152839; Cons. St., A.P., n. 2 del 9 febbraio 2016; id., sez. IV, sentenza n. 4636 del 7.11.2016; cfr. anche la sentenza n. 1833/2017, della sez. IV, resa in sede di appello avverso la sentenza della Sezione n. 12638/2016). Non già la domanda di restituzione ovvero di riduzione in pristino del proprio bene, illecitamente occupato dall’amministrazione, bensì di risarcimento del danno patito, con effetti abdicativi del diritto di proprietà, il Consiglio di Stato (sentenza n. 4635/2016, cit.) ha affermato che:
«a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell’atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno - rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto - costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia;
b) in ordine alla determinazione del quantum del risarcimento, questo deve essere commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso legale, da calcolarsi fino al momento dell’effettivo soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si è verificata la perdita del diritto di proprietà e l’ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea diritti dell’uomo, 22 dicembre 2009, Guiso – Gallisay c. Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 9 luglio 2014, n. 14604);
c) quanto alla determinazione del risarcimento del danno per mancato godimento del bene a cagione dell’occupazione illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere calcolato – ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in assenza di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa di diversi ulteriori profili di danno – facendo applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori dettati dall’art. 42-bis t.u. espr. (cfr. da ultimo sul punto Cons. Stato, sez. IV, 23 settembre 2016 n. 3929; 28 gennaio 2016 n. 329; 2 novembre 2011 n. 5844), e dunque in una somma pari al 5% annuo del valore del terreno;
d) non spetta, invece, in difetto di prova specifica alcuna liquidazione in misura forfettaria del danno non patrimoniale sia in quanto ciò è previsto, dall’art. 42-bis, co. 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa acquisizione del bene con decreto della pubblica amministrazione (e non già in presenza di un negozio abdicativo del privato), sia in quanto – con riferimento non già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con riferimento alla compressione delle facoltà di godimento – la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria) […]».
SENTENZA
N. 06894/2017 REG.PROV.COLL.
N. 09055/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9055 del 2013, proposto da:
omissis, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Giuseppe Lavitola e prof. Paolo Saitta, con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, via Costabella, 23;
contro
Roma Capitale, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Giorgio Pasquali, con domicilio in Roma, via Tempio di Giove, 21, presso l’Avvocatura capitolina;
per il risarcimento
dei danni derivanti dall' illecita utilizzazione delle aree di proprietà dei ricorrenti occorse per la realizzazione della via Ignazio Silone, in Roma;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale;
Viste le memorie difensive;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del giorno 10 maggio 2017 il Cons. Silvia Martino;
Uditi gli avvocati, di cui al verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. I ricorrenti sono proprietari, pro indiviso, di un appezzamento di terreno sito in Roma, località “Laurentino”, censito in Catasto al foglio 866, particelle 30/r di mq 60 e 31/r di mq.2790, occorso per la realizzazione della via Ignazio Silone, strada di collegamento tra il P.Z. Laurentino 38 e la via Cristoforo Colombo.
Il progetto dell’opera stradale è stato approvato dal Comune di Roma con delibera consiliare 24 marzo 1983, n. 1585, comportante dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza ai sensi dell’allora vigente l. n. 1/78.
I lavori sono stati ultimati entro il termine quinquennale previsto dalla summenzionata delibera di approvazione, decorrente dall’immissione in possesso avvenuta il 18 dicembre 1984 e successivamente prorogato fino al 18.12.1990 (cfr. la delibera n. 8360 del 14.12.1987, versata in atti dalla difesa capitolina).
Il correlato procedimento espropriativo, avviato con deliberazione di G.M. n. 5536 del 18 giugno 1985, non è stato tuttavia portato a termine, perché è mancata l’emanazione del successivo necessario decreto di esproprio.
Al fine di regolarizzare tale situazione di abuso, l’amministrazione, con determinazione dirigenziale del Dipartimento IX n. 780 del 9 giugno 2009, ha proposto ai proprietari di addivenire ad una conciliazione stragiudiziale offrendo, a fronte della cessione del bene, il pagamento di una cifra forfettaria, inclusiva di interessi e risarcimento dei danni.
A tutt’oggi, però, la situazione non ha trovato sbocco, sicché permane la situazione di illecita occupazione dell’area.
Con il presente ricorso essi domandano, pertanto, il risarcimento dei danni che si sono prodotti, derivanti dall’illecita utilizzazione dell’area.
Ritengono in particolare, che, nella fattispecie, trovi applicazione la disposizione transitoria di cui all’art. 55 del d.P.R. n. 327/2001 e che, per contro, non potrebbe trovare applicazione l’istituto dell’acquisizione sanante (citano, al riguardo, Cass. civ., sez. I^, 2 agosto 2012, n. 13932; in precedenza, Cass. civ., sez., I^, 28 luglio 2008, n. 20543).
Contestano inoltre l’indirizzo giurisprudenziale, secondo cui, una volta espunto dall’ordinamento l’istituto dell’accessione invertita, occorrerebbe un passaggio “intermedio” (di natura negoziale ovvero autoritativa) affinché la proprietà trapassi in mano pubblica, non bastando, all’uopo, la rinuncia da parte del titolare.
La tesi peraltro – sottolineano i ricorrenti – è in via di abbandono anche da parte del giudice amministrativo.
Per quanto riguarda la quantificazione dei danni, essi sostengono poi che debba aversi riguardo al valore venale del bene, senza tenere conto del deprezzamento subito in conseguenza del vincolo preordinato all’esproprio (Corte Cost., sentenza 16 dicembre 1993, n. 442; art. 32, comma 1, del T.U. n. 327/2001).
Il valore di mercato andrebbe quindi ricercato facendo riferimento alle originarie, intrinseche caratteristiche dell’area al momento dell’imposizione del vincolo, con particolare riguardo al regime dell’area circonvicina in cui è stato realizzato il piano di edilizia economica e popolare Laurentino 38.
Secondo la perizia di stima, allegata al ricorso, sulla scorta degli indici di densità territoriale e fondiario del P.Z. confinante, il prezzo dell’area è pari a L. 155.000/mq, a cui corrisponde un valore complessivo di L. 441.750.000.
I ricorrenti chiedono poi anche il risarcimento per gli anni di occupazione illecita, da calcolarsi in ragione degli interessi legali sul valore del bene, per ciascuno degli anni in questione.
Il tutto, oltre interessi e rivalutazione monetaria, e senza contare il danno extrapatrimoniale patito nel defatigante tentativo di ottenere soddisfazione del torto subito.
Si è costituita, per resistere, Roma Capitale.
Con memoria del 15.4.2016, i ricorrenti si sono soffermati sulla proposta di conciliazione stragiudiziale maturata nel 2009, ma mi concretizzatasi.
Ciò in quanto, sono emerse, negli uffici, due posizioni contrapposte: da un lato, quella del trasferimento del bene, in via convenzionale, dall’altro quella dell’applicazione alla fattispecie della c.d. acquisizione sanante.
Di fronte a questo modo ondivago di procedere i ricorrenti, pur confermando la loro disponibilità ad una soluzione stragiudiziale, hanno posto come condizione essenziale che la vicenda fosse definita entro e non oltre il 31 luglio 2012. Trascorso inutilmente detto termine hanno ritirato la loro disponibilità.
A sostegno della tesi della “rinuncia abdicativa” richiamano in particolare la sentenza della Sezioni Unite della Cassazione, n. 735 del 19.1.2015, la quale ha dato una lettura attualizzata dell’art. 55 del d.P.R. n. 327/2001, statuendo che la disposizione può e deve essere letta oggi come sganciata dall’occupazione acquisitiva e perciò come se in essa fosse presente l’inciso «ove non abbia luogo la restituzione» e non più come se in essa fosse presente l’inciso «non essendo possibile la restituzione». La Cassazione ha poi concluso che al proprietario, in alternativa alla restituzione, è sempre concessa l’opzione risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato. Si tratta di una rinuncia che ha carattere abdicativo e non traslativo, dalla quale non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’amministrazione.
I ricorrenti hanno quindi ribadito che il controvalore dell’area, cui hanno diritto, è di euro 228.145,00. Tale somma deve essere rivalutata all’attualità, per un ammontare di euro 441.460,58, cui vanno aggiunti gli interessi legali sugli importi via via rivalutati quale corrispettivo per il mancato godimento in tutti questi anni.
Con memoria del 21.4.2016, l’amministrazione capitolina ha richiamato l’attenzione sulla proposta di definizione bonaria della vicenda che prevedeva la cessione della proprietà dell’area, a fronte di un corrispettivo, forfettariamente determinato, di euro 190.000,00.
Questa proposta è stata formalmente accettata dalla proprietà sia pure fissando come condizione la definizione della vicenda entro il 31.7.2012.
Al riguardo, l’amministrazione riferisce che, in data 19.7.2012, chiedeva ai signori Del Tosto i documenti necessari per perfezionare la cessione, richiesta a cui, però, non è stato dato riscontro.
Ritiene quindi la difesa capitolina che l’incontro delle volontà formalizzato tra le parti non consenta di ottenere in via giurisdizionale una modifica di quanto stabilito in sede transattiva.
Argomenta, poi, sull’inammissibilità della domanda intesa ad ottenere il controvalore del bene, in assenza del passaggio della titolarità del diritto reale a seguito dell’occupazione.
In vista della pubblica udienza del 23.11.2016, i ricorrenti hanno depositato una ulteriore memoria, contestando, in primo luogo, la circostanza del preteso intervenuto perfezionamento di un accordo transattivo.
Al riguardo, hanno posto l’accento sulle note degli uffici capitolini da cui risulta che l’amministrazione ha ritenuto “superato” il provvedimento autorizzativo dell’acquisizione in via negoziale.
Nel 2012, poi, gli odierni ricorrenti hanno chiesto all’amministrazione ad adottare al più presto, e, comunque entro il 31.7.2012, un “provvedimento amministrativo”, ragion per cui tale lettera non costituisce una “accettazione delle proposta” ma semmai una sollecitazione all’adozione del provvedimento di acquisizione entro un termine certo.
Ribadiscono di non avere invocato l’applicazione dell’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001 bensì quella l’art. 55 del Testo Unico Espropri.
Quanto, poi, al progressivo superamento della tesi della pretesa inammissibilità della domanda risarcitoria intesa a conseguire il controvalore venale del bene, richiamano i più recenti pronunciamenti del Consiglio di Stato (in particolare, la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 9.2.2016)
Il ricorso è passato in decisione, una prima, volta, alla pubblica udienza del 23.11.2016.
Con sentenza n. 12638 del 20.12.2016, dopo aver definito alcune questioni preliminari, la Sezione ha assegnato a Roma Capitale il termine di 90 (novanta) giorni, decorrente dalla comunicazione e/o dalla notificazione della sentenza, per l’eventuale adozione del provvedimento di acquisizione delle aree di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
L’amministrazione capitolina non ha adempiuto.
I ricorrenti hanno quindi chiesto alla Sezione di disporre una CTU avente ad oggetto il seguente quesito: “Valuti il CTU il valore venale dell’are con riferimento all’epoca della sua irreversibile trasformazione avvenuta con l’ultimazione dei lavori in data 5 giugno 1989”.
Il ricorso è stato assunto nuovamente in decisione alla pubblica udienza del 10 maggio 2017.
2. Come già evidenziato nella sentenza n. 12638/2016, non vi è contestazione in ordine alla ricostruzione dei fatti, così come esposti nella narrativa che precede, salvo che per quanto riguarda la circostanza relativa al raggiungimento tra le parti di un accordo di natura transattiva e/o preliminare alla cessione volontaria del compendio di cui si verte.
Ci si trova quindi pacificamente al cospetto di una procedura espropriativa che non è stata mai conclusa a causa della omessa tempestiva emissione del decreto di esproprio e nell’ambito della quale le aree facenti capo ai ricorrenti sono state occupate ed irreversibilmente trasformate.
Secondo la costante giurisprudenza amministrativa e civile, successiva agli arresti della Corte Europea dei diritti dell’uomo (ex multis, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; 12 gennaio 2006, Sciarrotta c. Italia), la pubblica amministrazione non può divenire proprietaria del suolo sulla base di un atto illecito (quale è la realizzazione dell'opera pubblica in assenza di un valido titolo ablativo) e nessun acquisto della proprietà di un'area può esservi in assenza di un legittimo atto ablatorio.
Si può quindi ritenere pacifico in giurisprudenza il principio per cui, in caso di occupazione originariamente o, successivamente, divenuta sine titulo, l'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso; e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno.
In tali fattispecie, all’amministrazione rimangono le seguenti alternative:
1) acquisire l’area ricorrendo alla stipula di fattispecie negoziali civilistiche;
2) restituire l’area, previa remissione in pristino stato e corresponsione del risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla restituzione;
3) adottare un eventuale provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, corrispondendo al privato il valore venale del bene, il risarcimento per il periodo di occupazione illegittima protrattasi sino alla emissione del provvedimento e le ulteriori poste risarcitorie contenute nella disposizione da ultimo citata.
A tali ipotesi, si aggiunge oggi quella della rinuncia abdicativa, implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo (cfr., in particolare, Cass. civ., sentenza 19 gennaio 2015, n. 735; 29 ottobre 2015, n. 22096 e 25 luglio 2016, n. 152839; Cons. St., A.P., n. 2 del 9 febbraio 2016; id., sez. IV, sentenza n. 4636 del 7.11.2016; cfr. anche la sentenza n. 1833/2017, della sez. IV, resa in sede di appello avverso la sentenza della Sezione n. 12638/2016).
Con riferimento alla specifica ipotesi in cui il proprietario formuli non già la domanda di restituzione ovvero di riduzione in pristino del proprio bene, illecitamente occupato dall’amministrazione, bensì di risarcimento del danno patito, con effetti abdicativi del diritto di proprietà, il Consiglio di Stato (sentenza n. 4635/2016, cit.) ha affermato che:
«a) stante la natura abdicativa e non traslativa dell’atto di rinuncia, il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno - rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo che di esso rappresenta il presupposto - costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti della acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia;
b) in ordine alla determinazione del quantum del risarcimento, questo deve essere commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso legale, da calcolarsi fino al momento dell’effettivo soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si è verificata la perdita del diritto di proprietà e l’ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea diritti dell’uomo, 22 dicembre 2009, Guiso – Gallisay c. Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 9 luglio 2014, n. 14604);
c) quanto alla determinazione del risarcimento del danno per mancato godimento del bene a cagione dell’occupazione illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere calcolato – ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in assenza di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa di diversi ulteriori profili di danno – facendo applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori dettati dall’art. 42-bis t.u. espr. (cfr. da ultimo sul punto Cons. Stato, sez. IV, 23 settembre 2016 n. 3929; 28 gennaio 2016 n. 329; 2 novembre 2011 n. 5844), e dunque in una somma pari al 5% annuo del valore del terreno;
d) non spetta, invece, in difetto di prova specifica alcuna liquidazione in misura forfettaria del danno non patrimoniale sia in quanto ciò è previsto, dall’art. 42-bis, co. 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa acquisizione del bene con decreto della pubblica amministrazione (e non già in presenza di un negozio abdicativo del privato), sia in quanto – con riferimento non già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con riferimento alla compressione delle facoltà di godimento – la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria) […]».
Nel caso di specie, la principale ed, anzi, unica domanda avanzata dai ricorrenti è quella di risarcimento del danno, non solo per il mancato godimento del bene, negli anni in cui la p.a. lo ha illegittimamente occupato, ma anche per la sua sostanziale perdita, in quanto esso è stato irreversibilmente trasformato. Essi non hanno quindi più interesse alla restituzione.
Va poi ribadito quanto già rilevato con la sentenza n. 12638/2016, e cioè che deve escludersi che la situazione di illecito sia venuta meno per effetto della “conciliazione” autorizzata con d.d. n. 780 del 9.6.2009, sulla base dell’atto di impegno del 28.5.2009, sottoscritto dagli odierni ricorrenti.
Risulta infatti che, dopo l’adozione di tale provvedimento, la Direzione Contratti prima, e il Segretario Generale dopo, interpellati ai fini della stipula di un “atto transattivo”, o comunque ai fini della formalizzazione in via negoziale del trasferimento del bene, abbiano espresso dubbi in ordine a tale soluzione negoziale, ed invitato gli uffici a procedere dapprima ai sensi dell’art. 43 del t.u. espropri e poi dell’art. 42- bis del medesimo testo (cfr., in particolare, le note prot. n. SC/194818 del 27.7.2009 e prot. n. SC/242788 del 21.9.2011).
Inoltre, stando alla documentazione versata in atti dall’Avvocatura capitolina, la soluzione negoziale ha ripreso vigore, mercé la redazione di uno schema di atto transattivo – traslativo, soltanto dopo la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del t.u. espropri, per poi essere nuovamente revocata in dubbio con l’entrata vigore dell’art. 42 – bis.
I ricorrenti, dal canto loro, pur manifestando ancora la propria disponibilità ad una soluzione negoziale, hanno condizionato tale volontà ad una definizione dell’intera vicenda «entro e non oltre il 31 luglio 2012» (cfr. la lettera dei ricorrenti in data 28.5.2012).
E’ ben vero che alla richiesta di documentazione del 19.7.2012, finalizzata al completamento dell’ iter procedurale per la liquidazione dell’importo onnicomprensivo a titolo di indennità di occupazione, risarcimento del danno e interessi legali», essi non hanno dato riscontro.
Tuttavia, tale richiesta appare ancora un provvedimento interlocutorio, non essendosi mai giunti ad un vero e proprio accordo preliminare, vincolante anche per l’amministrazione, né, tantomeno, al perfezionamento di un accordo di cessione volontaria.
L’amministrazione, peraltro, è rimasta inerte anche quando la Sezione, con la sentenza n. 12638/2016, le ha ordinato di valutare se assumere un provvedimento ex art. 42 – bis del testo unico espropri.
2.1. Ciò posto, la domanda di risarcimento deve essere accolta.
Per quanto riguarda la determinazione del danno, il Collegio ritiene che possa utilizzarsi l’istituto previsto dall’art. 34, comma 4, c.p.a., secondo cui «In caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine».
Pertanto, nel termine di 90 (novanta) giorni decorrenti dalla comunicazione e/o notificazione della presente sentenza, Roma Capitale dovrà proporre ai ricorrenti una somma determinata secondo i criteri già in precedenza evidenziati, ovvero:
1) per quanto riguarda il risarcimento dei danni connessi alla perdita del diritto di proprietà, si dovrà tenere conto del valore venale del bene, alla data di proposizione del ricorso introduttivo (il 31.7.2013), poiché, a tale data, si è verificata la rinuncia “abdicativa” al diritto di proprietà;
2) per quanto riguarda i danni conseguenti all’occupazione illegittima del bene, corrente dal 19.12.1990 sino al 31.7.2013 (data della rinuncia “abdicativa”) il danno va quantificato nel 5% (cinque per cento) annuo sul valore venale di cui al punto 1;
3) sulla somme di cui ai punti precedenti dovranno essere calcolati interessi e rivalutazione sino alla data in cui la proposta di Roma Capitale perverrà ai ricorrenti;
4) su tutte le somme dovute, così come individuate, decorreranno gli interessi legali dalla data delle proposta fino al soddisfo.
In caso di accettazione della proposta, l’amministrazione capitolina dovrà anche provvedere alle conseguenti trascrizioni, secondo le modalità indicate nella cit. sentenza del Consiglio di Stato n. 4636/2016.
Se le parti non dovessero giungere ad un accordo nel termine indicato, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV del c.p.a., potrà essere richiesta la determinazione della somma dovuta.
Le spese seguono come di regola la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II^, definitivamente pronunciando sul ricorso, di cui in premessa, lo accoglie e, per l’effetto, condanna Roma Capitale al risarcimento del danno in favore dei ricorrenti, da liquidare secondo i criteri, i tempi e le modalità di cui in motivazione.
Condanna Roma Capitale alla rifusione delle spese di giudizio che si liquidano, complessivamente, in euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre gli accessori, se dovuti, come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 maggio 2017 con l'intervento dei magistrati:
Antonino Savo Amodio, Presidente
Silvia Martino, Consigliere, Estensore
Roberto Caponigro, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Silvia Martino Antonino Savo Amodio
IL SEGRETARIO