Scia in sanatoria
Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 28/10/2021) 15/11/2021, n. 7593
MASSIMA: Si riconosce all'istanza di sanatoria il solo effetto di impedire temporaneamente che la misura repressiva venga portata ad esecuzione. La definizione del procedimento in senso sfavorevole, con provvedimento espresso o per silenzio, determinerà la "riespansione" dell'originario ordine di demolizione che riacquisterà efficacia senza necessità di ricorrere all'adozione di ulteriori provvedimenti.Tale posizione è da ritenersi maggiormente coerente con il principio di certezza delle situazioni giuridiche che, come già affermato dalla Sezione, subirebbe un vulnus qualora si riconoscesse al privato sanzionato la possibilità, mediante la semplice reiterazione di istanze di sanatoria, di precludere il dispiegamento degli effetti propri della misura impugnata innescando "un procedimento ricorsivo senza fine perché il soggetto sanzionato potrebbe rinnovare (senza limitazioni di alcun genere) la domanda a seguito della riadozione di quel provvedimento" (Cons. Stato, Sez. VI, 16 febbraio 2021, n.1432)
SENTENZA:
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4308 del 2015, proposto da L.V., R.V. e C.V., rappresentati e difesi dagli Avv.ti Oronzo Caputo e Mario Coppola, con domicilio eletto presso l'Avv. Claudia De Curtis, in Roma, viale Giuseppe Mazzini n. 142;
contro
Comune di Capri, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Sesta) n. 06690/2014, resa tra le parti, concernente demolizione opere abusive e successiva acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle aree interessate all'abuso;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 ottobre 2021 il Cons. Marco Poppi;
Viste le conclusioni delle parti come da verbale;
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
A seguito di sopralluogo effettuato da personale dell'Ufficio Tecnico del Comune di Capri presso l'area sulla quale insiste il ristorante "Le Grottelle", veniva accertata la presenza delle seguenti opere, realizzate in assenza di titolo:
1) "Forno a legna sul terrazzamento";
2) "Realizzazione nel sottostante locale deposito di due accessi separati rispetto all'unico vano porta indicato nelle planimetrie";
3) "Apposizione sul pergolato di pali di ferro che insiste sull'area del terrazzo ristorante, di pannelli ondulati in plastica";
4) "Locale deposito" in muratura delle dimensioni di circa mt. 2,30 x mt. 2,60 ed altezza mt. 2,20;
5) "Chiusura del portico antibagno con lastre di vetro";
6) "Divisione a mezzo tramezzo del locale seminterrato" con "ampliamento locale attiguo a mezzo scavo di roccia".
Preso atto delle suesposte risultanze ispettive, l'amministrazione, con ordinanza n. 79 del 25 giugno 2010, ingiungeva la demolizione di quanto abusivamente realizzato ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001.
I titolari dell'esercizio, con ricorso depositato il 21 ottobre 2010 iscritto al n. 5635/2010 R.R., impugnavano la misura demolitoria innanzi al TAR Campania - Napoli deducendo (in estrema sintesi) che:
- l'amministrazione avrebbe illegittimamente omesso la prescritta comunicazione di avvio del procedimento determinando una lesione dei propri diritti partecipativi;
- le opere elencate ai punti 1), 2) e 3), in quanto qualificabili come interventi di manutenzione ordinaria rientranti nell'ambito dell'attività edilizia libera o, al più, come interventi di manutenzione straordinaria, non potrebbero che essere sanzionate con la sola sanzione pecuniaria;
- il manufatto di cui al punto 4) integrerebbe un'opera avente natura pertinenziale e consistenza di volume tecnico (adibito a deposito materiali e installazione impianti) per la realizzazione del quale la disciplina normativa non richiederebbe né il permesso di costruire né l'autorizzazione paesaggistica ma la presentazione di una DIA, in difetto della quale, sarebbe consentita la sola adozione della sanzione pecuniaria ex art. 37 del D.P.R. n. 380 del 2001;
- le ulteriori opere di "adeguamento igienico e funzionale", indicate ai punti 5 e 6, integrerebbero un intervento di restauro e risanamento conservativo o, al più, di manutenzione straordinaria non soggetta al regime del permesso di costruire ma alla sola presentazione della DIA;
- la corretta qualificazione degli interventi contestati ("ristrutturazione edilizia che non porta ad un organismo diverso dal precedente"), avrebbe dovuto indurre l'Amministrazione ad applicare la disciplina di cui all'art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001 che, a differenza di quanto prescritto dall'art. 31, dispone che si proceda alla demolizione e ripristino ma non anche all'acquisizione dell'area interessata all'abuso;
- gli interventi oggetto di contestazione, in quanto subordinati alla sola presentazione della SCIA ex art. 22 del D.P.R. n. 380 del 2001, non potrebbero essere qualificati in termini di "variazioni essenziali" nei sensi di cui all'art. 32 del medesimo testo normativo e, per tale ragione, potrebbero essere sanzionati con la sola sanzione pecuniaria prevista dal successivo art. 37;
- anche nella denegata ipotesi in cui quanto realizzato necessitasse di permesso di costruire, sarebbero mancate le valutazioni dell'Amministrazione circa la possibilità concreta di procedere alla demolizione senza pregiudizio delle parti conformi, l'entità del pregiudizio paesaggistico e la sanabilità delle opere in ragione della (affermata in ricorso) conformità delle stesse agli strumenti urbanistici;
- l'Amministrazione avrebbe omesso di specificare l'area oggetto di acquisizione nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine demolitorio;
Alla notifica della citata misura ripristinatoria seguiva, in data 29 aprile 2011, la presentazione, da parte dei Ricorrenti, dell'istanza n. 7265 di autorizzazione al ripristino in ottemperanza spontanea del "nuovo accesso", della "chiusura del portico antibagno con lastre di vetro" e degli interventi realizzati al piano seminterrato (v. suindicati nn. 2, 5 e 6).
Contestualmente veniva richiesto l'accertamento di conformità relativamente alle opere residue, ritenute essere prive di impatto ambientale e conformi alla disciplina urbanistica.
In ordine a tale istanza, in data 21 giugno 2011, la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali esprimeva parere favorevole relativamente agli interventi sopra descritti ai nn. 1, 3 e 4 mentre, demandava al Comune ogni valutazione circa le restanti opere.
In data 6 settembre 2011, la Commissione Locale per il Paesaggio, relativamente a queste ultime, rilasciava il parere favorevole all'applicazione della sola sanzione pecuniaria.
Il Comune, tuttavia, non si pronunciava sull'istanza dei ricorrenti ma procedeva all'accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione dichiarando l'acquisizione al patrimonio comunale delle opere e dell'area di sedime delle stesse estesa a tutte le particelle di proprietà dei medesimi (censite presso il catasto al foglio (...), particelle (...), (...) e (...)).
Il sopravvenuto provvedimento veniva dai Ricorrenti impugnato con ricorso per motivi aggiunti, depositato il 26 febbraio 2014 deducendo, in particolare, l'illegittimità dell'adozione dell'atto acquisitivo in pendenza delle richiamate istanze e nonostante l'acquisizione dei richiamati pareri della Soprintendenza e della Commissione paesaggio.
Il TAR, con l'impugnata sentenza n. 6690/14, respingeva il ricorso introduttivo, proposto avverso l'ordine di demolizione affermando che:
- "nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, come qui accade, deve effettuarsene una valutazione globale atteso che "la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione" (cfr. in tali sensi, Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, sentenze n. 5835 del 18 dicembre 2013, n. 1114 del 5 marzo 2012; n. 26787 del 3 dicembre 2010; 16 aprile 2010, n. 1993; 25 febbraio 2010, n. 1155; 9 novembre 2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11 marzo 2010, n. 584), ovvero di "scomporla in distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio" (così la giurisprudenza sopra riportata e così già Tar Puglia, Bari, sezione seconda, 16 luglio 2001, n. 2955)";
- con la realizzazione delle opere contestate, integranti "variazione essenziale" nei sensi di cui all'art. 32 del D.P.R. n. 2001 del 2001, "si è realizzata una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in area assoggettata a vincolo paesaggistico" che avrebbe richiesto "la previa acquisizione del permesso di costruire e, comunque, dell'autorizzazione paesaggistica", escludendo la dedotta natura pertinenziale delle stesse e riaffermando la doverosità dell'adozione della misura demolitoria;
- la verifica circa "la possibilità tecnica del ripristino prima dell'irrogazione della sanzione ripristinatoria" non è rilevabile con riferimento all'ordine di demolizione poiché si renderà necessaria unicamente "qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione";
- dovevano ritenersi infondati i dedotti vizi di motivazione e di istruttoria, con la conseguenza che "in considerazione della visibile alterazione del paesaggio" e della non contestata "realizzazione delle opere in questione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi" la misura demolitoria era doverosa;
- l'evidenziata doverosità della misura demolitoria determinava l'irrilevanza della dedotta omissione della comunicazione di avvio del procedimento, nonché, l'inesistenza di un obbligo di motivazione ulteriore alla "stessa descrizione dell'abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria".
Il TAR, tuttavia, accoglieva in parte il ricorso per motivi aggiunti ritenendo fondata la dedotta omessa specificazione tanto della "esatta estensione della ulteriore superficie da acquisire" quanto delle "ragioni per acquisire tutte le particelle indicate che coincidono con l'intera sua proprietà".
Con appello depositato il 20 maggio 2015, i Ricorrenti in primo grado impugnavano l'illustrata sentenza del TAR Campania ritenendola viziata da "omessa pronunzia ed error in iudicando" lamentando, sotto un primo profilo, che l'Amministrazione avrebbe illegittimamente proceduto in pendenza di una istanza di accertamento di conformità e di ottemperanza in proprio all'ingiunzione di demolizione; sotto altro profilo, l'erroneità delle valutazioni del giudice di primo grado in ordine alla qualificazione delle opere realizzate ed alla conseguente ritenuta doverosità della misura demolitoria.
L'Amministrazione non si costituiva in giudizio.
All'esito dell'udienza del 28 ottobre 2021, l'appello veniva deciso.
Gli appellanti deducono in primis l'erroneità del mancato accoglimento integrale dei motivi aggiunti, deducendo, con un primo ordine di censure, che l'Amministrazione avrebbe proceduto all'adozione del provvedimento di acquisizione ritenendo erroneamente la sussistenza del presupposto della loro inottemperanza all'ordine di demolizione impartito.
La ricorrenza di detto presupposto sarebbe smentita dalla presentazione della citata richiesta del 29 aprile 2011 con la quale, con riferimento ad alcune delle opere in questione, veniva richiesta l'autorizzazione ad ottemperare in proprio "come da progetto favorevolmente accolto sia dalla Soprintendenza che dalla CLP di Capri" (pag. 5 dell'appello) mentre, relativamente ai residui interventi, veniva richiesto l'accertamento di conformità.
Con particolare riferimento alle prime, allegano che non ricorrerebbe il presupposto dell'inottemperanza che, invece, il giudice di primo grado riteneva implicitamente esistente né, si afferma, potrebbe essere loro opposta l'intervenuta formazione del silenzio rigetto in merito all'istanza presentata che non potrebbe che riguardare le sole opere oggetto di accertamento di conformità.
Il motivo è fondato nei seguenti termini.
Preliminarmente occorre distinguere gli effetti che l'istanza del 29 aprile 2011 determina in relazione ai diversi abusi realizzati.
Quanto alle opere oggetto dell'istanza di rispristino in proprio, la censura è fondata.
Ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 "se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune".
La giurisprudenza della Sezione, è pacifica nel ritenere che l'acquisizione del bene non consegua automaticamente all'accertamento dell'abuso edilizio, ma alla successiva inottemperanza all'ordine di demolizione e riduzione in pristino (ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 3 febbraio 2020, n.864), ovvero, ad una situazione di inerzia che, nel caso di specie, è insussistente.
Come già evidenziato, infatti, relativamente alle opere suindicate ai nn. 2), 5) e 6), veniva presentata una richiesta di autorizzazione al ripristino sulla base di un progetto sul quale, peraltro, si esprimevano favorevolmente, come anticipato, tanto la Soprintendenza quanto la Commissione comunale, sulla quale l'amministrazione non si pronunciava: inerzia cui, in assenza di una specifica previsione normativa, non può riconoscersi alcun effetto provvedimentale.
Ne deriva, quindi, l'illegittimità degli atti impugnati in primo grado relativamente agli interventi realizzati nel "sottostante locale deposito" (n. 2), nel portico "antibagno" (n. 5) e nel "locale seminterrato" (n. 6).
Quanto alle residue opere (nn. 1, 3 e 4), gli appellanti, come anticipato, affermano che la sentenza sarebbe viziata in ragione della mancata considerazione della pendenza dell'istanza di accertamento di conformità che avrebbe determinato l'inefficacia dell'ordine di demolizione e l'improcedibilità dell'impugnazione dello stesso per sopravvenuta carenza di interesse in quanto l'esito del riesame dell'abusività supererebbe il provvedimento impugnato rendendo necessaria l'adozione di una nuova determinazione (Cons. Stato, Sez. IV, 21 ottobre 2013, n. 5090).
La doglianza non è meritevole di accoglimento.
Circa la specifica questione deve riconoscersi che la giurisprudenza non è stata sempre univoca.
Si è talvolta affermato che la presentazione dell'istanza di accertamento di conformità determini l'inefficacia della misura demolitoria facendo sorgere, in capo all'amministrazione, l'obbligo di rivalutare l'abuso pervenendo ad una nuova pronunzia, con conseguente improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell'originaria impugnazione (Cons. Stato., Sez. VI, 3 marzo 2020, n. 1540).
In altre occasioni si è, invece, sostenuto che la pendenza dell'istanza determini una situazione di inefficacia della misura impugnata solo temporanea destinata a cessare una volta definito il procedimento di sanatoria (Cons. Stato, Sez. II, 19 febbraio 2020 n. 1260).
L'orientamento più recente della Sezione, dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, è conforme alla posizione da ultimo richiamata che riconosce all'istanza di sanatoria il solo effetto di impedire temporaneamente che la misura repressiva venga portata ad esecuzione.
La definizione del procedimento in senso sfavorevole, con provvedimento espresso o per silenzio, determinerà la "riespansione" dell'originario ordine di demolizione che riacquisterà efficacia senza necessità di ricorrere all'adozione di ulteriori provvedimenti.
Tale posizione è da ritenersi maggiormente coerente con il principio di certezza delle situazioni giuridiche che, come già affermato dalla Sezione, subirebbe un vulnus qualora si riconoscesse al privato sanzionato la possibilità, mediante la semplice reiterazione di istanze di sanatoria, di precludere il dispiegamento degli effetti propri della misura impugnata innescando "un procedimento ricorsivo senza fine perché il soggetto sanzionato potrebbe rinnovare (senza limitazioni di alcun genere) la domanda a seguito della riadozione di quel provvedimento" (Cons. Stato, Sez. VI, 16 febbraio 2021, n.1432).
Quanto alle censure formulate avverso l'ordine di demolizione, gli appellanti, sotto un primo profilo, censurano la sentenza impugnata nella parte in cui respinge il ricorso affermando che "nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, come qui accade, deve effettuarsene una valutazione globale atteso che "la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione" (cfr. in tali sensi, Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, sentenze n. 5835 del 18 dicembre 2013, n. 1114 del 5 marzo 2012; n. 26787 del 3 dicembre 2010; 16 aprile 2010, n. 1993; 25 febbraio 2010, n. 1155; 9 novembre 2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11 marzo 2010, n. 584), ovvero di "scomporla in distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio" (così la giurisprudenza sopra riportata e così già Tar Puglia, Bari, sezione seconda, 16 luglio 2001, n. 2955)".
Ritengono i Ricorrenti che i principi richiamati in sentenza sarebbero riferibili a interventi unitari realizzati mediante più opere eterogenee fra loro ma "logicamente collegate".
Nel caso di specie oggetto di contestazione sarebbero, invece, una pluralità di interventi autonomi fra loro, realizzati in tempi diversi e accomunati solo dall'essere stati realizzati su terreno di loro proprietà.
L'orientamento fatto proprio dal Tar, si afferma, sarebbe superato dalla giurisprudenza che, in presenza di una pluralità di abusi contestualmente rilevati dall'Amministrazione, richiederebbe una considerazione "atomistica" degli stessi applicando, in relazione a ciascun abuso la disciplina "prevista per ciascuna specifica esecuzione in assenza di titolo" (pag. 10 dell'appello).
Riconosce il Collegio che in giurisprudenza è granitica la posizione per la quale, nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, il carattere abusivo delle stesse debba effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che "la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione" (Cons. Stato, Sez. III, 31 maggio 2021, n.4142).
Deve, tuttavia, rilevarsi che, come già affermato dalla Sezione, "il presupposto perché una pluralità di interventi edilizi possano essere considerati in maniera unitaria e complessiva al fine di apprezzarne la legittimità, è che oggettivamente esista tra loro un intrinseco collegamento funzionale che ne imponga la valutazione unitaria (Cons. Stato, Sez. V, 12/10/2018, n. 5887)" (Cons. Stato, Sez. VI, 13 maggio 2020, n.3036).
Nel caso di specie, gli abusi contestati afferiscono ad una pluralità di interventi realizzativi di manufatti autonomi, un forno, un pergolato l'apposizione di pannelli ondulati su un pergolato preesistente ed un deposito, opere le prime due di modesta consistenza, che sarebbe penalizzante sussumere tutte nella fattispecie che richiede il permesso a costruire specie in presenza dell'intento della parte appellante ha manifestato di ripristinare parzialmente la situazione preesistente la trasformazione edilizia per le altre opere mediante un progetto di rispristino mai esaminato.
Ne deriva che la conformità delle opere realizzate potrà, nel caso di specie, essere valutata singolarmente.
Sotto un secondo profilo, gli appellanti, censurano la sentenza impugnata nella parte in cui si afferma che "come disposto dall'art. 32, comma 3 del D.P.R. n. 380 del 2001, qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come "variazione essenziale" e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi dell'art. 31 co. 1, T.U. ed. cit.".
A sostegno della pretesa erroneità della sentenza, allegano che la misura di cui all'art. 31 troverebbe applicazione solo in caso di "realizzazione di opere sottoposte a permesso in assenza di titolo" o per la "realizzazione di opere in difformità assoluta o con variazioni essenziali rispetto al "necessario" permesso a costruire rilasciato" (pag. 12 dell'appello).
Diversa sarebbe la situazione rilevata dall'Amministrazione, caratterizzata dall'esecuzione di opere che, ancorché realizzate ex novo, dovevano essere qualificate come interventi manutentivi e di risanamento conservativo non assoggettati al regime del permesso di costruire e che non potrebbero, per tale ragione, presentare profili di difformità da un titolo abilitativo non necessario.
Tale illegittimo incedere dell'Amministrazione sarebbe stato erroneamente avallato dal TAR.
Vanno quindi esaminate le doglianze partitamente per ogni opera residua (rispetto al progetto di ripristino da riesaminare).
Le doglianze sono infondate relativamente alla contestata realizzazione del "locale deposito" in muratura (abuso n. 4).
Ai sensi dell'art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 "il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3".
Ai sensi dell'illustrata disposizione, la misura demolitoria e le conseguenze che il successivo comma 3 ricollega all'inottemperanza della stessa, trovano applicazione in presenza di manufatti realizzati senza titolo.
Nel caso di specie, è pacifico che il manufatto, avente consistenza di un nuovo fabbricato di superficie pari a circa 6 mq. e volume pari a circa 13 mc., venisse realizzato in assenza di permesso di costruire e tale circostanza consente di superare la questione relativa alla natura o meno essenziale di una eventuale difformità da un titolo mai richiesto.
L'edificazione ex novo del fabbricato, inoltre, smentisce l'affermata riconducibilità di quanto realizzato ad interventi di manutenzione o di risanamento e vincola l'amministrazione all'adozione della misura demolitoria, demandando alla successiva fase esecutiva ogni eventuale questione relativa alla effettiva possibilità di procedervi.
Relativamente alla realizzazione del forno a legna (abuso n. 1) e all'apposizione di pannelli ondulati sul pergolato (abuso n. 3), il ricorso è fondato, trattandosi di opere interne o comunque manutentive la cui realizzazione non necessità di permesso di costruire.
Ai sensi dell'art. 3, del D.P.R. n. 380 del 2001 sono interventi di ristrutturazione edilizia, "gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti".
Sono, invece, interventi di manutenzione ordinaria, quelli "che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti" e interventi di manutenzione straordinaria, "le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino mutamenti urbanisticamente rilevanti delle destinazioni d'uso implicanti incremento del carico urbanistico".
Come già rilevato in giurisprudenza, il carattere distintivo che caratterizza l'intervento di ristrutturazione dagli interventi manutentivi "è, dunque, costituito dalla finalità, che è quello della "trasformazione" dell'organismo edilizio, in termini di diversità rispetto al precedente" (Cons. Stato, Sez. VI, 14 ottobre 2016, n. 4267).
Nel caso di specie, la realizzazione di un forno a legna o l'apposizione di onduline ad un pergolato, non comportano la creazione di alcun "organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente" stante la loro inidoneità a determinare aumenti volumetrici e di superfici, nonché, ad incidere sul carico urbanistico (per quanto riguarda il forno a legna, v. Cons. Stato, Sez. VI, 8 maggio 2018, n.2743; per quanto riguarda il pergolato, v. sempre Cons. Stato, sez. VI, 8 maggio 2018, n.2743 ma anche Cons. Stato, Sez. II, 31 maggio 2019, n. 3646 secondo cui il pergolato è una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze, costituita da un'impalcatura formata da montanti verticali ed elementi orizzontali che li connettono ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone; di norma quindi, come struttura aperta su tre lati e nella parte superiore, non richiede alcun titolo edilizio).
Inoltre le opere minime realizzate non costituiscono variazioni essenziali ai sensi dell'art. 32 comma 2 del t.u. edilizia per cui tale disposizione normativa non osta alle conclusioni raggiunte.
Sotto un terzo, e ultimo profilo, gli appellanti deducono che gli interventi loro contestati, in quanto non eseguiti in assenza di permesso di costruire o in totale difformità con lo stesso o, ancora, con variazioni essenziali, ricadrebbero nell'ambito di applicazione dell'art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001 a norma del quale, l'Amministrazione, nell'esercizio dei propri poteri in materia di vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di titolo, sarebbe tenuta a procedere alla demolizione delle stesse, senza previsione ( a differenza di quanto disposto dall'art. 31) della successiva acquisizione dell'area interessata all'abuso in ipotesi di inottemperanza all'ordine.
Conferma di ciò si ricaverebbe dal testo dell'art. art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004 che, in presenza di mutamento dello stato dei luoghi in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, prevedrebbe solo la remissione in pristino e non l'acquisizione.
La censura è infondata.
La norma invocata, che sanziona la realizzazione di opere abusive in ambiti tutelati prevedendo la possibilità di un intervento ripristinatorio immediato ad opera della stessa amministrazione, in ragione della specificità degli interessi a tutela dei quali è posta, si ritaglia un ambito di applicazione che solo in parte coincide con quello di cui all'art. 31.
L'art. 31, infatti, trova applicazione in presenza di opere assoggettate al regime del permesso di costruire e sanziona non solo il difetto del titolo ma anche le difformità o le variazioni essenziali da quanto assentito.
La misura regolata dall'art. 27 è, quindi, da ritenersi alternativa a quella di cui all'art. 31 e trova applicazione al di fuori del perimetro di applicazione di quest'ultima.
Premesso quanto sopra, deve in conclusione ritenersi:
che relativamente alle opere di cui a nn. 2, 4 e 6, l'appello sia fondato con conseguente necessità, da parte dell'amministrazione di rideterminarsi sul progetto di ripristino presentato dall'appellante;
che, quanto alle opere di cui ai nn. 1 e 3, l'appello sia fondato, trattandosi di opere interne non riconducibili al permesso a costruire ma all'attività edilizia libera;
che, con riferimento all'opera di cui al n. 4, l'appello sia infondato.
Per quanto precede l'appello deve essere accolto in parte nei suesposti sensi con compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte nei sensi e nei limiti di cui in motivazione e per l'effetto riforma la sentenza appellata.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.